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RESISTOR Rise autoprod. 2010 USA

Subito, mi sono innamorato subito di questo disco. Sarà stata la voce che immediatamente mi ha convinto e ammaliato, saranno i flauti e i violini, sarà la varietà tematica e la sua totale assenza di attimi di noia, sarà la sua voglia di sorprendere a livello melodico, tanto da convincermi, dopo anni che non accadeva, a seguire i testi parola per parola. Sarà forse tutto questo, ma ogni volta mi pare persino strano, specie per un disco totalmente privo di tastiere. In effetti mi aveva già quasi convinto l’omonimo disco di esordio, del 2008, forse meno carismatico e personale, ma con brani interessanti, che lasciavano intravedere buone qualità. Ora la maturità stilistica e musicale salta fuori in pieno in un gran disco.
Leader del gruppo è Steve Unruh, polistrumentista di grande tecnica, che vanta una carriera solista con numerose uscite e nelle quali suona ogni cosa e canta testi molto poetici e intriganti. Qui, nella versione elettrica è accompagnato dai bravissimi Barry Farrands alla batteria, Fran Turner alla seconda chitarra e Rob Winslow al basso, tenendo quindi per se, oltre a quasi tutta la parte compositiva, le voci, la quasi totalità delle chitarre, il flauto e il violino.
Lunghissimo il lavoro, che nella sua complessità sfiora i 79 minuti e che contiene una suite di oltre 16 e una side track di quasi 40. Ogni brano merita di essere esaminato, per narrarne la ricchezza compositiva e melodica, il notevole songwriting e senz’altro anche la personalità. In genere, se vogliamo parlare di qualche riferimento, possiamo immaginare gli sviluppi tematici del gruppo come una personale visione di prog folk, dai non rari tratti hard, con agganci a gruppi come Jethro Tull, Rush, Kansas e momenti acustici molto intriganti e anche questi non certo rari, grazie all’ampio utilizzo di flauto, violino e chitarre acustiche. Poche parole sui brani più brevi della prima parte: molto vari, dalle linee di canto molto intriganti e personali determinati dalla composizione dei testi prima della musica. Ottima l’opener “The Secret Of The Open Sky” che fa della variabilità ritmica la sua caratteristica principale ed è tema riassuntivo di tutto quanto si potrà ascoltare all’interno del CD. Bella anche la delicata “Masquerade” che punta decisamente sulla prova vocale e sul capace intreccio chitarristico chiaramente di spunto folk. Particolare lo sviluppo dell’unico brano strumentale “Spaceghetti”: una cavalcata violinistica in sapore Kansas e dai tratti folk appalachiani. “Ether” raccoglie in poco più di 5 minuti il tema cantato suadente ed ipnotico e una sezione aggressiva che raccoglie il lato più hard dei Jethro tra flauti e chitarre distorte, un altro gran pezzo, decisamente. Poi la suite “Mimosa” che riesce persino a toccare lidi canterburyani grazie a delicati temi jazzy e flautistici e una linea vocale che rimanda ai primi Caravan, immancabili le parti hard di chitarra distorta, brano di rara bellezza e coesione stilisitica. Tutta la seconda parte, come detto è dedicata alla lunghissima “The Land of No Groove” una sorta di concept fantastico dove i protagonisti, la band, sono alla ricerca della terra della musica ideale, l’isola musicale dei sogni, lontana dalle musicacce moderne, dove il nemico è idealizzato nella disco music, diffusa a mezzo di grandi megafoni ai quali è impossibile sottrarsi. Nel viaggio alla ricerca di questa terra immaginifica troviamo ambienti di provenienza particolare, mostri marini, lande deserte e montagne dentellate. Musicalmente la mega suite si snoda su temi chiaramente tulliani in una sorta di novello “Thick As A Brick”, anche il cantato per certi aspetti si riesce a ricondurre a Ian Anderson. Non mancano frammenti di psichedelia californiana, folk cantautoriale alla Cat Stevens o altri più tipicamente zappiani portandomi alla memoria la storia di Grand Wazoo. Splendido, davvero encomiabile il lavoro di Barry Farrands, che accompagna i vari movimenti con un drumming capace ed estremamente ricco. La storia si snoda tra cantati di grande lustro e spoken sections e via, via che si avvicina al finale ha dato modo a tutti di presentare le proprie capacità musicali in una girandola moderna e antica assieme. L’arrivo all’isola, per primi dopo trent’anni, e la formazione di una mega band di sedici elementi consentirà la rottura dei megafoni e il ritrovo del vero groove dimenticato.
E’ raro, decisamente raro, che un disco dei giorni nostri mi porti ad un riascolto così frequente come questo. Tra le migliori uscite dell’anno, consideratelo già parte dei vostri cuori malati di vecchio e amorevole progressive.
Tutti i dischi di Steve Unruh, solo o con band, sono acquistabili dal suo sito.


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Roberto Vanali

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