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SOURDELINE La reine blanche Discovale 1976 (Guerssen 2010) FRA

Le correnti del folk francese si dividevano, negli anni Settanta, fra quella classica, degli intransigenti che ricostruivano le canzoni del passato in maniera fedele, e quella Progressive, meno rigorosa ma sicuramente più creativa. Con la recente riscoperta e valorizzazione del folk rock di quegli anni sono iniziati ad emergere dalla polvere anche i gruppi più sotterranei che vivono una seconda giovinezza grazie alle ristampe su CD di opere che, nella loro versione originale, sono attualmente quasi introvabili. I Sourdeline, nome che deriva da un tipo di bag pipe suonata in Francia nel Seicento, appartengono alla corrente folk progressiva ma, a differenza di altri grandi nomi del genere, come i Malicorne per esempio, non hanno mai avuto molta fortuna, nonostante la indubbia bellezza delle loro opere.
La loro storia inizia nel 1972 nel folk-club “Les Trois Canards” di Etampes, una piccola cittadina dell’Île-de-France, dove si esibivano abbastanza regolarmente Catherine Burban (canto, dulcimer, salterio) e Jean-Pierre Danìelsen (percussioni, dulcimer, flauto, canto, crumhorn, salterio). Attorno a questo nucleo si aggiunsero via via Jean-Pierre Dallongeville (canto, chitarra, mandoloncello), Jacky Izambert (bodhran, tabla, tamburino e percussioni) e, qualche anno dopo, Pascale Piat al violino che aveva un ottimo background classico e che aggiunse un tocco sinfonico e ricercato alla musica. All’inizio il repertorio del gruppo poggiava sul folk anglo-americano ispirandosi principalmente ai Pentangle ma poi l’attenzione si spostò sulla tradizione locale, soprattutto dopo l’acquisto da parte di Jean-Pierre dell’antologia delle canzoni popolari francesi di Joseph Canteloube, opera ben conosciuta dagli artisti folk dell’epoca e dalla quale sono stati tratti diversi pezzi che si trovano in questo album. Il sound della band si andava contemporaneamente arricchendo di nuovi strumenti che includevano il mandolino, il mandoloncello, la ghironda, lo zither ungherese, il salterio, il crumhorn e persino sitar e tabla. Inizia così una intensa attività dal vivo che si consuma per lo più in piccoli locali o in aree turistiche. Fu comunque dopo la partecipazione al festival di Cazals che il gruppo fu adocchiato da Willy Wenger dell’etichetta Discovale per la quale uscì questo esordio. La registrazione avvenne in un piccolo studio, su un otto piste. L’accoglienza della critica non fu proprio calorosa perché le canzoni non vennero reputate abbastanza tradizionali e gli arrangiamenti erano troppo sofisticati. Quello che per gli intransigenti poteva sembrare un difetto si dimostra come l’elemento di maggiore pregio e fascino del disco che presenta un sound decisamente personale con bellissimi equilibri fra gli strumenti a corde pizzicate ed il suono squillante del salterio. Della tradizione viene conservata un’idea di base che viene completamente trasfigurata attraverso una nuova veste timbrica, nuove nuance e nuove cadenze ritmiche.
La traccia di apertura, “Le château de Chantelle”, un pezzo tradizionale del Borbonese, una antica provincia del centro della Francia, presenta insolite colorazioni blues che ricordano i Pentangle e un tocco di colore dato dal morbido ritmo delle tabla, acquistando una musicalità assolutamente particolare. Poi c’è il canto di Catherine, ora gioioso e spensierato ma altre volte ipnotico e quasi ronzante, come nella superba “La belle est au jardin d’amour”. Molto bello è il breve strumentale “La dent du loup”, suonato in canone dal dulcimer, dal violino e dal mandoloncello, con i loro suoni squillanti contrappuntati che vibrano sotto la morbida onda ritmica delle tabla. Interessante è l’interazione fra gli strumenti a fiato e quelli a corde, come in “M’en vas à la fontaine”, con crumhorn e flauto, oppure come nella successiva “C’est à ville”, dal retrogusto medievale con begli intrecci vocali ed un suono graziosamente stratificato.
Un misto di malinconia, festosità e ritmi danzanti percorre questo album che presenta suoni antichi ma proposti in una versione fresca e dagli arrangiamenti preziosi e vivaci. A volte si percepisce un tenue alone psichedelico che dona una luce tremolante e particolare a canzoni dal fascino arcaico, come nel caso della title track, uno strumentale incantevole che sembra quasi far materializzare davanti ai nostri occhi l’immagine di una bianca regina che suona il salterio su una alta torre, con gli occhi rivolti verso le stelle.
I Sourdeline hanno poi realizzato un secondo album, “Jeanne D'Aymé”, pubblicato nel 1978, dove si registra anche la presenza di un bassista, Alain Lousteau, a dare maggiore profondità al suono, giungendo più tardi allo scioglimento dopo un ultimo cambio di formazione avvenuto con l’abbandono di Jean-Pierre. “La reine blanche” è un album dal cui fascino è davvero difficile rimanere immuni, vivamente consigliato a tutti gli amanti del prog-folk, soprattutto a quelli che amano le contaminazioni fra suoni antichi e visioni più moderne, con vaghi accenti blues e psichedelici tipici dell’Inghilterra di fine anni Sessanta.


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Jessica Attene

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