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STEVEN WILSON Grace for drowning K Scope 2011 UK

All’inizio della carriera con la sua creatura Porcupine Tree, Steven Wilson non celava minimamente l’influenza che i Pink Floyd avevano avuto sulla sua proposta musicale. Proposta che nel corso degli anni ha subito vari mutamenti (non sempre apprezzabili), tenendo conto di nuove fonti di ispirazione e della sempre maggiore maestria di Wilson come produttore. Proprio l’abilità mostrata in quest’ultima attività ha spinto persino un genio egocentrico come Fripp a chiamarlo per fargli mettere mano al repertorio storico (e sacro!) dei King Crimson per le versioni del quarantennale dei vari album della gloriosa band. Così, la spinta crimsoniana già evidenziata in alcune cose delle sue ultime produzioni, unita alla vicinanza col Maestro devono aver avuto una presa non indifferente su Wilson nella creazione del suo secondo album solista, doppio cd intitolato “Grace for drowning”.
Ma lo diciamo subito: non aspettatevi una copia pedissequa dell’arte del Re Cremisi. Gli spunti frippiani sono qui “aggiornati”, “riveduti” e “manipolati”, con suoni modernissimi e che mostrano uno spirito di ricerca finalmente indirizzato verso un qualcosa di più personale. Aggiungiamoci anche che per l’occasione Wilson ha reclutato una parata di vere e proprie stelle del progressive rock vecchio e nuovo, con nomi del calibro di Steve Hackett, Tony Levin, Trey Gunn, Pat Mastellotto, Theo Travis, Jordan Rudess (solo per citarne alcuni) e vi renderete conto della portata che può avere la sua nuova opera. Piano e voce nella title-track che apre l’album, chitarra acustica principale protagonista nella conclusiva “Like dust I have creared from my eye”. In mezzo a questi due brevi tasselli di introduzione e di chiusura scorre un mare incredibile di idee.
Il disco cresce ascolto dopo ascolto, le composizioni sono di quelle dalle quali si notano sempre nuovi particolari, sempre nuove chicche che fanno capire il momento di felicissima ispirazione dell’autore. Prenderemo come esempio due brani, che mostrano alla perfezione i contenuti di questo intrigante lavoro: dal primo cd “Deform to form a star”, dal secondo “Raider II”. La prima è l’emblema di quanto può essere elegante la musica di Wilson. L’inizio è delicatissimo con le note del piano (magistralmente suonato da un Rudess in vena e orientato verso sentieri classicheggianti), dopo un minuto entra la voce, che segue docili melodie e man mano la musica si arricchisce con il clarinetto di Travis e la sezione ritmica, che introduce il refrain accattivante, un po’ malinconico e che non fa perdere raffinatezza al brano. Arriva poi un intrigante assolo di chitarra elettrica, un crescendo in cui riaffiorano gli stagionati, ma sempre adorabili suoni del mellotron, ancora gradevoli parti vocali, un nuovo avvincente guitar-solo mentre i tasti d’avorio rifiniscono, un passaggio ambient d’atmosfera, prima del finale dai pieni toni epici e sinfonico-romantici. “Raider II” è allo stesso tempo il pezzo più crimsoniano del lotto e quello più rappresentativo con i suoi ventitre minuti di durata. L’inizio sembra revisionare la celebre “Cirkus” del Re Cremisi, la cui somiglianza traspare chiaramente con un jazz-rock aspro e con le melodie sbilenche e stravaganti. Ma in questa maratona troviamo un po’ di tutto; attraverso una serie di contrasti di suoni e di “colori” spesso nettissimi e con l’ombra di Fripp sempre pronta a farsi vedere, si passa da pennellate delicate dai sapori acustici di chitarra e flauto a momenti di robusto e personale heavy-prog, fino a toccare leggere tentazioni d’avanguardia e a evidenziare altre affinità con “Lizard”; il tutto condito con prelibatezze gustose, come i fiati di Travis che riescono persino a disegnare magie canterburiane e un conturbante assolo di piano di Rudess. Le geometrie perfette che caratterizzano questa composizione le ritroviamo anche nelle altre: in quasi un’ora e mezza Wilson riesce a mantenere un equilibrio ed una organicità nonostante i continui giochi in chiaro-oscuro, le accelerazioni spericolate, il mix di stili, che comprende anche la presenza di spinte elettroniche mai invadenti, di space-rock, di ballads coinvolgenti, di sonorità orchestrali, persino di qualche lieve rimando a Ligeti e alla sua illustre “Lux aeterna” in “Raider prelude”.
Curioso che proprio mentre Fripp ha preferito puntare su un ritorno alla semplicità (senza perdere di vista la qualità) con il pop-rock di classe di “A scarcity of miracles” in collaborazione con Jakko Jakszyk e Mel Collins, Wilson sembra quasi immaginare come potrebbe suonare nel 2011 una nuova forma “attualizzata” dei King Crimson. E nonostante la sua lunga durata “Grace for drowning” è uno di quei dischi di grande compattezza, che non stanca, che ti fa venir voglia di assimilare al meglio i suoi contenuti. Ricordo diverse interviste nelle quali traspariva un certo fastidio in Wilson nell’essere associato al mondo del progressive. Non so quanto l’artista oggi possa sentirsi ancora quasi estraneo a questo mondo; quel che vediamo, o meglio, che ascoltiamo, è che consciamente o inconsciamente, Wilson prova a dare una sua rilettura di 40 anni di prog, dando un piglio molto moderno all’opera, citando (senza esagerazioni), ma non copiando, evidenziando un felicissimo momento creativo e mettendo la ciliegina sulla torta con l’eccelso lavoro di produzione e di missaggio, che contribuisce a dare ulteriori ricami a questo “abito” futuribile della musica che tanto amiamo.



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Peppe Di Spirito

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