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SAILOR FREE Spiritual revolution Tide 2012 ITA

I Sailor Free incentrano il loro terzo album su un concept ispirato al “Silmarillion” di J.R.R. Tolkien, in cui l’amore, fonte inesauribile di energia, annulla qualsiasi preconcetto, legge o convenzione. Un’energia intesa come metafora universale della vita e della vitalità creativa, uno strumento di evoluzione sociale, di illuminazione della mente e dello spirito, oltre che diritto inalienabile al sapere. La loro musica nel passato sembrava contaminare il grunge col prog, creando qualcosa di atipico (e forse, nemmeno tanto inconsapevolmente, rientrando in pieno nello spirito che stava alla base del genere stesso), che a volte portava alla mente gli Alice in Chain più evocativi. Ma anche gli stessi Mad Season, cioè gruppi in cui militava l’oggi defunto Layne Staley, che all’epoca concedeva ben più di una vibrazione all’ascoltatore grazie alla sua natura inquieta che si estrinsecava tramite la musica proposta. Oggi, passati gli anni, sembra che il gruppo del tastierista/cantante David Pietrosino si concentri più sulla solennità (magari il racconto ha avuto la sua influenza), pur non rinunciando a timbriche spesso distorte. Nel booklet, oltre ai testi, vi sono anche indicati i temi di ogni brano, legato l’uno con l’altro. Se si ascolta l’intero lavoro un paio di volte, si capirà che la storia viaggia verso una graduale ascesa; in un primo momento, infatti, si aveva la netta impressione che i Sailor Free avessero deciso di puntare su ritmi contenuti, lasciando che l’intensità venisse fuori nelle atmosfere di pezzi come l’iniziale “Spiritual Ouverture”, in cui a tratti possono venire in mente anche i connazionali Time Machine (e di conseguenza… in senso molto lato anche i Queensryche?), con alternanza di pianoforte, synth, momenti più pacati ed altri agitati, inserendoci pure il flauto dell’ospite Stefano Ribeca. Poi, pian piano, si sale sempre di più, con voci e soprattutto soluzioni sonore che sanno molto di simil-alternative, che con le cesellature di piano e gli interventi chitarristici Stefano Barelli spingono a farsi ascoltare più volte per essere meglio assimilati. Quest’ultimo, forse per non sbilanciare la struttura del concept, a volte rimane in disparte, ma quando entra in gioco risulta determinante.
“The Curse” è un momento chiave, in cui si parte in sordina e poi ci si alterna con sensazioni claustrofobiche e voci narranti, prima di giungere all’inizio della svolta di “Spiritual…”: dapprima tramite il mid-tempo della title-track, con le percussioni di Gabriele Cagliarini a sottolineare le parti strumentali ed il fiddle di Barbara Barbarelli per uno stralunato finale in stile irlandese, poi con “War”, introdotta da una voce radiofonica tipo Zappa. “The Entropia” è uno strumentale parecchio suggestivo che dà modo alla chitarra di spaziare seppur per poco, lasciando il passo alle toste “Faithless” e “Beyond the Borders”, in cui le ambientazioni sono però sempre in primo piano.
Il finale è forse la parte migliore, con la lunga “My Brain” e soprattutto la strumentale “A Great Hope”. In quest’ultima Barelli sembra davvero libero di esprimersi, peccato che vada a sfumare in un momento topico, durante il quale l’ispirazione istintiva pareva averlo portato verso un rimarchevole groove psichedelico.
Di fronte a questi hard-progsters tricolori i puristi storceranno il naso, poco ma sicuro. Il loro ascolto di certo non è semplice come potrebbe sembrare in un primo momento. Vanno assimilati e digeriti con calma. Il prodotto finale, anche se non eccezionale, presenta una sua originalità e merita delle chances. Pensateci, anche in vista della riscoperta dei precedenti lavori.


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Michele Merenda

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