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RETROSPECTIVE Lost in perception Progressive Promotion Records 2012 POL

Per il loro ritorno sulle scene dopo l’esordio del 2008, i polacchi Retrospective si accasano con la tedesca P.P.R., label relativamente nuova che si concentra maggiormente sulla produzione di prog metal band melodiche le quali presentino anche concept abbastanza complessi. Gruppi come i Flaming Row e i Seven Steps to the Green Door ne sono la prova più evidente.
I Retrospective, provenienti da quello che è ritenuto dalla casa discografica stessa un Paese meraviglioso per la musica prog, trattano tematiche riguardanti spesso la solitudine o comunque l’improvvisa presa di coscienza di una situazione negativa, che porterà poi a quella che si spera sia una liberazione reale. Nella bella confezione viene riprodotto un immaginario dalle atmosfere assai autunnali, con quella che vuole essere una sorta di prigione letargica in cui l’Esistere è controvoglia rinchiuso. La loro musica, come si anticipava all’inizio, è assai melodica e pur lavorando sulle impressioni decadenti tipiche delle foglie morte di una determinata stagione dell’anno, non è mai stucchevole o – peggio ancora – pacchiana, grazie ad un ottimo lavoro di coesione compositiva e soprattutto alla ottima voce di Jakub Roszak, capace di dare enfasi nei momenti giusti e nel modo sempre corretto. Questi viene presentato come un vocalist capace di comunicare tonalità sognati nello stile di Eddie Vedder e contemporaneamente denotare una vena malinconica simile a Peter Hammill, ma in realtà Roszak possiede uno stile proprio, personale, che si mostra sempre assai deciso ed energico. Quando poi si incontra con la corposa voce femminile della tastierista Beata Łagoda, ne vengono fuori bei pezzi come “Lunch”, “Our Story Is Beginning Now” e “Ocean Of A Little Thoughts”.
Nonostante in alcuni brani come “Huge, Black Hole” si sia vicini al prog metal dei primi Threshold, questa seconda release è più che altro un album di belle canzoni, indipendentemente dall’individuazione schematica del genere proposto. Sembra non volerci essere niente di più (anche se di per sé è già parecchio), con la voce che è davvero la protagonista principale dell’intero lavoro, valorizzata comunque da una produzione compatta – l'unico inconveniente è quello di far sembrare le ambientazioni troppo simili tra loro – e poi da un lavoro corale degli strumenti volto a curare le più leggere sfumature. A dire il vero manca qualche bell’assolo prorompente, che avrebbe spezzato quella “cappa” scura che grava sulle belle melodie. Sì, ci sarebbe voluto il Karl Groom della situazione, capace di squarciare le strutture costruite fino ad un dato momento e poi implodere di nuovo su sé stesso, per ricominciare daccapo.
Ma comunque, lo si ribadisce, le belle canzoni qui ci sono ed il sestetto di musicisti coinvolti denota costantemente attenzione e massima professionalità.


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Michele Merenda

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