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PAX ROMANA Let all men know - this is sacred ground Presence Records 2012 FIN

Attenzione a camminare sulle strade ghiacciate, se non si procede con cautela, si potrebbe cadere e ci si potrebbe fare male. E’ questo quello che ho pensato ascoltando questo album, suonato da musicisti non più giovani, la cui esperienza, pur non avvalorata all’epoca da pubblicazioni discografiche, affonda nei lontani anni Settanta, e che sembrano camminare con prudenza, passo dopo passo, su un sentiero dove la brina del mattino si è pericolosamente ghiacciata.
Ricordo l’esordio dei Pax Romana del 2005 per la sua estrema semplicità e linearità, un album suonato con dolcezza e garbo, elegante ma privo di sussulti. Da allora è uscito un secondo CD nel 2009, intitolato “And the dance begins again”, che ha visto l’ampliamento del quartetto di base grazie all’aggiunta di diversi ospiti, uno dei quali, Kalle Fält, è ora membro stabile del gruppo con i suoi fiati che comprendono il sax tenore e soprano e il clarinetto. Questa scelta evidentemente dimostra la lodevole volontà di arricchire il proprio sound donandogli maggiore personalità e versatilità e bisogna dire che questo obiettivo è stato in parte centrato. Le canzoni rimangono lineari, melodiche, distese e prevalentemente in quattro quarti, con atmosfere Floydiane ben riconoscibili… anche se in pezzi come “Second to none” viene forse quasi da pensare più ai Dire Straits, nonostante la somiglianza sfacciata con “Time”. A questi tappeti pianeggianti e senza dossi i fiati e le tastiere, enfatizzate al punto giusto, donano un piacevole tocco di eleganza e forse la malinconica traccia di apertura, “Screaming heads”, è fra le più emblematiche in questo senso, con il sax e l’organo che incupiscono l’atmosfera ed il ritmo del pezzo che vagamente assume quasi una progressione folk nordica. Molto meglio se il gruppo lascia da parte la batteria, spesso troppo schematica, lo abbiamo detto, e confeziona un etereo quadretto come quello fornito dalla title track, dominata ancora dai fiati e dal limpido suono della chitarra e del piano, con sorde percussioni tradizionali appena sullo sfondo. “Danish lullaby” sembra quasi più un pezzo cantautoriale di folk americano, col suo cantato rustico e la chitarra acustica, ma serve più che altro ad aumentare la monotonia, pur con timbriche leggermente diverse, di un album già di per sé molto lento e rilassato. Non serve accelerare leggermente il ritmo in “Soul basement”, posso vedere benissimo le stampelle che sostengono il cammino di questi vecchi musicisti che, è vero, non cadono mai effettivamente, ma che non fanno neanche tutti questi salti! Tutti i fremiti e tutti i sussulti sono effimeri e tutto finisce con l’appiattirsi prima o poi, anche con soluzioni leggermente più pop, come nel brano di chiusura, “Blind eye”, quasi alla Supertramp, ma nella loro veste più semplicistica.
Diamo a Cesare quel che è di Cesare, visto che a questi finlandesi piacciono le citazioni del mondo latino, e diciamo che il gruppo si è effettivamente impegnato, dimostrando che anche una cariatide, se vuole, può alzare un po’ il tiro. La performance è dignitosa e piacevole, con il cantato dei due Matti, Kervinen (che suona anche le tastiere) e Inkinen (che suona anche le chitarre), che è piacevole e tarato su tonalità gravi, anche se privo di grosse estensioni. Inoltre l’aggiunta di diversi ingredienti, come detto, è apprezzabile, portando questo album una spanna sopra rispetto all’esordio, forse fin troppo anonimo. Ma a parte una epidermica piacevolezza, che scompare non appena si spegne lo stereo, a parte i miei complimenti per essere arrivati in fondo al percorso ancora in piedi, non sono certo i Pax Romana a tagliare per primi la linea del traguardo accodandosi invece a quelli che infoltiscono le moltitudini dei maratoneti che, nonostante l’estrema stanchezza, vogliono completare a tutti i costi la gara, seppure con ampissimo ritardo.


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Jessica Attene

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