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ARABS IN ASPIC Pictures in a dream Black Widow 2013 NOR

Contando anche il mini album “Progeria” (2003), prima vera uscita del quartetto norvegese, questo “Pictures…” è di fatto il quarto album della band di Trondheim, anche se nel 2012 sono stati ristampati in un’unica confezione il già citato “Progeria” assieme al secondo “Far Out In Aradabia” uscito un anno dopo; questo è il motivo per cui, in tutti i comunicati ed in buona parte delle recensioni, leggerete che i lavori sono cinque. Risolto il piccolo arcano che magari avrebbe potuto creare degli inutili dubbi nei collezionisti più incalliti, gli scandinavi tornano sul mercato discografico ancora con la label genovese Black Widow, che nel 2011 aveva ristampato il terzo “Strange Frame Of Mind” (autoprodotto in patria l’anno precedente), grazie al quale erano stati posti con merito all’attenzione di tutti gli appassionati di quel hard-prog fortissimamente debitore di tutta la grande tradizione dei primi anni ’70. Tra i vari punti di contatto, erano in molti a notare una certa affinità con i colleghi italiani di scuderia Wicked Minds, anche se gli “Arabi in Gelatina” denotavano una concettualità ancora più heavy, magari più vicina ai Black Sabbath, pur disdegnando affatto i Deep Purple e gli Uriah Heep. Per tutti questi motivi, l’ultima fatica è stata salutata con grande curiosità ed ottimismo da chi li aveva apprezzati in precedenza, chiedendosi se fosse andato avanti quel processo di maturazione musicale a cui si era potuto assistere nello scorrere degli ultimi due lavori (il primo, per quanto facesse intravedere buone potenzialità, non era a tal riguardo affatto esauriente).
Ad oggi, si può benissimo dire che la crescita c’è effettivamente stata e che paradossalmente si dimostra inversamente proporzionale al periodo cronologico a cui ci si rifà in maniera esplicita. Le lancette del tempo sembrano infatti spostarsi ancora un po’ più indietro; non di molto in verità, quel tanto che basta per rivivere il periodo di “mezzo”, quella sorta di limbo dimenticato che ha separato le ultime evoluzioni del rock’n’blues da ciò che sarebbe stato sia l’hard rock che il progressive come poi tutti lo avrebbero riconosciuto, fluendo nel Tempo grazie ai fumosi flussi lisergici. Tra l’altro, ha perfettamente ragione Donato Zoppo quando scrive che la meravigliosa copertina di Julia Proszowka Lund, autentico manifesto della musica proposta, appare come una attualizzazione di quell’onirica opera d’arte, anch’essa piena di simbolismi, che lo scomparso artista Tammo De Jongh realizzò per “In the wake of Poseidon” (1969), cioè il secondo lavoro dei King Crimson (sarà un puro caso che su quell’album compariva un pezzo chiamato “Pictures of a city”?). Ed ha sempre ragione Zoppo a dire che qui ci si muove, come anticipato poco sopra, in un interstizio ben preciso. Gli Arabs, quindi, divenendo maggiormente psichedelici appaiono come un autentico paradosso temporale, uno di quegli anelli di congiunzione che nell’Evoluzione spariscono per far posto ad altre “specie” meglio definite ed assemblate. Solo che loro non sono scomparsi, sono sotto gli occhi di tutti… e l’impatto, pur non essendo (per forza di cose) nulla di innovativo, appare prima straniante e poi fascinoso. Come dice il titolo stesso, “Pictures in a dream” fa sì che i musicisti si muovano in maniera molto scaltra all’interno di una dimensione in cui tutto è più o meno possibile, rimanendo sospesi e poi prendendo sentieri che in altri contesti sarebbero sembrati forzati. Occorrono diversi ascolti per comprendere bene, per definire il senso di costante déjà-vu che è tipico del dormiveglia. Pare strano, ma immediatamente vengono in mente gli italianissimi Fungus, che nemmeno a farlo apposta sono proprio di Genova; ulteriore riferimento psichedelico quindi, in particolar modo ai Pink Floyd precedenti a “The dark side of the moon”. Ma poi si scopre ben altro. “Rejected wasteland/Pictures in a dream” si apre con delle basi che si rifanno nettamente ai Doors più quieti, tanto che stupisce il non sentire un loro ritornello, ma quando ci si immette nella title-track si cerca di capire a chi è stata rubata quella strofa così melodica e aperta. Nel frattempo, si è arrivati al ritornello che rimarrà stampato a lungo in testa e tutto il brano sarà rafforzato dall’ospite Rune Sundby, cantante dei gloriosi connazionali Ruphus. Dopo un po’ si intuirà che questa non era altro che un’introduzione ai blocchi successivi, il cui primo gradino è costituito da “Let U.S. pray”, “You are blind” e la strumentale “Felix”, brani legati tra loro che potrebbero tranquillamente dar vita ad una suite. Rimangono nelle orecchie gli echi sfuggenti dei ‘Sabbath e quindi, con quell’organo hammond, non è un’eresia se si pensa ai californiani Bigelf. Inoltre, nelle fasi più melodiche del cantato acuto di Jostein Smeby (divenuto bravo veramente, sia alla voce che alla chitarra) si può ogni tanto pensare ai Black Bonzo. Ergo, agli Uriah Heep, senza comunque dimenticare il “Profondo Porpora”, anche se in questo lavoro le tastiere di Stige Arve Jørgensen ricordano più Ray Manzarek che John Lord o Ken Hensley.
Altro blocco imponente è quello di “Hard to find”, “Difference in time” e “Lifeguard@Sharkbay”, in cui le melodie fanno repentino posto alla durezza, con riferimenti che ancora una volta si stanno per cogliere ma che poi sfumano in altri. Ogni tanto gli “Arabi norvegesi” sembrano perdersi per strada, un po’ come quelli che stanno facendo un discorso, divagano e inevitabilmente si dimenticano ciò che stavano dicendo. Per poi ricordarselo di colpo alla fine di un’altra discussione. Ma anche questo potrebbe essere un trucco inerente alla sapiente scelta delle immagini nei sogni, in cui i testi sono brevi e lapidari, come macchie di colore indelebile nella mente e nell’anima.
Si conclude con la semi-ballad “Ta et steg til siden”, “Vi møtes sikkert igjen” (che per inquadrarla in tutto il contesto occorrono parecchi passaggi) e “Prevail to fail”. Il quadro di un ensemble che tempo fa sarebbe potuto comparire nei nomi sconosciuti dell’etichetta tedesca Bellaphon Records è ormai compiuto. Tra formazioni britanniche ignote e spesso eccellenti come i Sunday o i Crazy Mabel, ci sarebbero infatti potuti essere anche loro. Ma l’ultima parola spetta alla versione acustica della title-track, che se in un primo momento poteva sembrare una semplice bonus magari superflua, mette in luce una grande sensibilità ed alla fine quell’interrogativo che ci si era posti all’inizio durante l’esecuzione elettrica viene risolto: si tratta di un chiaro riferimento alla musica che apre il magnifico “Argus” dei Wishbone Ash, cantato però in stile John Lawton del periodo “Banquet” dei Lucifer’s Friend. Una trasfigurazione totale, capace di sottolineare come questo album, nonostante non porti nulla di nuovo, abbia parecchie cose da dire e far dire. E pur non essendo un capolavoro, come sarebbe facile poter proclamare, si tratta comunque di un contenitore dalle mille sfaccettature che meritano di essere scoperte e gustate, sotto delle plumbee nubi sabbathiane da cui piovono fiori colorati di un’epoca che fu.



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Michele Merenda

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