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KUNDALINI Asylum for astral travellers Mellow Records 1997 SVE

Kundalini, quel potere interiore a forma di serpente che giace nel chakra situato alla base della spina dorsale e che si può risvegliare tramite lo Yoga, facendo sì che passando tramite la spina dorsale stessa con un movimento elicoidale possa irradiarsi verso gli altri chakra e quindi aprire nella mente ciò che simbolicamente viene visto come i “mille petali” del fior di loto. Una condizione finale che conferisce allo yogi un completo controllo del proprio corpo e della propria interiorità. Uno stadio che permette di trascendere la mera condizione fisica e quindi potersi elevare verso altre Realtà. Ecco il perché di un titolo come quello di quest’album: templi e luoghi visti come un “Asilo per i viaggiatori astrali”, cioè coloro che hanno raggiunto la capacità di uscire con la parte spirituale dal corpo e viaggiare, appunto, verso quello che è il Nirvana, l’Estasi finale, l’annullamento dell’Individuale verso il Tutto universale. Verso l’Uno dei neoplatonici. Per tornare poi in questo corpo, accresciuti dall’immensa esperienza mistica.
Un viaggio che il chitarrista Arne Jonasson sembra intraprendere tramite la creazione musicale, accompagnato nella sottile alchimia dal bassista Gunnar Olofsson e dal batterista Patrik Sandqvist.
Chiariamolo subito: questo è un gran disco, la cui unica pecca è forse quella di durare troppo. Ma ciò nulla toglie al valore enorme espresso dal trio scandinavo, autore di una fusion degna di essere chiamata tale. Immedesimandosi tra le immagini di copertina, antiche di quasi cento anni e colorate a mano per l’occasione, Jonasson supporta spesso la propria chitarra elettrica con strumenti multietnici a corda e a fiato come il bouzouki, il saz, il cümbüs, la nychelharpa, il mey, la zurna, il näverlur e via dicendo, fondendo la ricerca astrale delle tradizioni estremorientali con la struttura di un jazz assai corposo ed articolato. Del resto, Jonasson è passato attraverso numerose esperienze musicali, a partire dai Njutånger nei primi anni ’80 a finire nei ben più celebri psychedelic/space rockers Holy River Family Band. L’unico e solo album dei tre svedesi è formato da venti brani divisi a gruppi di cinque, in cui la perizia tecnica va di pari passo al coinvolgimento emotivo. “Squirrel Nest” apre le danze e lo fa quasi nello stile dei Felcktones di Bela Fleck, in una specie di “bluegrass asiatico” scherzoso a cui si intervallano della fasi chitarristiche meditative. Segue “Calusari”, che dopo un inizio classicamente fusion cresce di intensità, fino ad arrivare – a tratti – vicino a quella espressa live dagli assoli più “orgiastici” di Mike Stern o a quelli di Allan Holdsworth del periodo “Bundles” con i Soft Machine. Anche la breve “Gazpacho”, che deve qualcosa all’Al Di Meola più duro, risulta degna di nota ed apripista lungo tutto il lavoro a ottimi brani fluidi e vivi come “The Pudas Box”, “Hedgehog in the rain”, “Blackeyed Susan” e “Mankind is kept alive by bestial acts”, in cui vi è sempre alternanza di ritmi all’interno della stessa composizione.
Ci sono poi alcuni brani tostissimi come “Garden gnome business”, una versione incattivita di “Five Five Five” di zappiana memoria (a sua volta una chiara presa per i fondelli del già citato Al Di Meola), i cinque minuti epici di “Franco has just left the building”, o il chitarrismo al fulmicotone di “Ellington the ruthless” in stile vecchio David T. Chastain.
“Dali’s hambo in short skirt” è un viaggio avventuroso verso la galassia in cui si è rifugiato Zappa dopo il trapasso, immediatamente seguito dai quasi due minuti di Günaydin e dai due pieni di Gurkha; episodi assai brevi ma dall’incredibile intensità, che in un minutaggio così ridotto esprimono tutto quanto c’è da esprimere. Quello dei motivi brevi ma incredibilmente vigorosi continua con “Just as fast as Saperstein”, mentre gli ultimi sei brani appaiono molto meditativi, dai ritmi rarefatti e dalle tendenze sperimentali, “Speaking in tongues” e “Blue waves from the skies” su tutte. Un aspetto, questo, che potrebbe trovare l’ascoltatore stanco e poco paziente, soprattutto dopo il ragguardevole tour in cui si è da un bel po’ imbarcato. Una cesura netta, sicuramente ben inquadrata dai suoi autori nella filosofia che sta alla base della struttura di quest’opera, che però rischia di far terminare la fruizione dell’album prima della sua effettiva fine, in cui Jonasson canta nella rarefatta “A soul is like the moon” e suona la batteria nella finale “Pignoise” (a proposito di sperimentazione…), mentre Sundqvist imbraccia il basso. C’è ancora comunque il tempo per ascoltare le belle, tranquille “Springrun” e “Magic of a child”.
Un grande disco, si diceva. Un lavoro di enorme personalità che, volendo, avrebbe potuto presentare un numero minore di brani e quindi dar vita ad una discografia più ampia, con idee ulteriormente elaborate. Ma invece i nostri hanno deciso di dare immediato sfogo all’intera vena creativa e va anche bene così. Dopo due anni, Arne Jonasson tornerà con il solo Patrik Sundqvist, cambiando il nome del gruppo in Chameleon.
L’Al Di Meola più rockeggiante; il Frank Zappa di lavori più improntati al versante jazzistico e controllato come gli assoli in “Zoot Allures” ma anche la raccolta strumentale del doppio “Guitar”; le parti chitarristiche dei migliori Korai Öröm, magiari con un cultura chiaramente di natura anatolica (che porta con sé, a sua volta, un forte retroterra centro-asiatico)… Sono probabilmente queste le componenti maggiori nel sound dei Kundalini, che però, vista anche l’amenità di partenza delle fonti citate, non può far altro che dare alle stampe un unico album dalla forte originalità. Unico, appunto.



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Michele Merenda

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