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AMOEBA SPLIT Second split Azafran Media 2016 SPA

Una ameba è in grado di dividersi a metà e di formare due nuove amebe fra loro identiche. Da questo secondo split amebico origina invece un nuovo LP non più lungo rispetto all'esordio (41 minuti in totale) ma sensibilmente diverso da esso, seppure ancora una volta inquadrabile in ambiti squisitamente jazz prog. Sei anni, quanti ne sono trascorsi fra le due uscite, sono tanti in effetti e non potevano passare senza conseguenze. Forse l'evento più significativo è rappresentato dall'abbandono della flautista e cantante Maria Toro che viene sostituita, solo riguardo all'uso del flauto, dal nuovo arrivato Dubi Baamonde che suona però anche il sax tenore. Il risultato è un'opera completamente strumentale che presenta varie gradazioni di jazz, a volte stemperate da tenui colorazioni cameristiche. Ancora una volta le impressioni Canterburyane sono incredibilmente vivide con somiglianze che riguardano soprattutto i Soft Machine e che, in misura variabile, sfiorano i National Health, i Caravan e gli Hatfields. Forse il precedente "Dance of the Goodbyes" aveva lasciato su di me impressioni più forti e durature, i colori che mi si presentano invece con la traccia di apertura, "Clockwise", sono subito spenti e brumosi, dominati dai fiati e snodati lungo ritmiche serpeggianti ma lente. Queste tinte autunnali, queste atmosfere fioche, le troviamo imprigionate ovunque, in ogni singola nota di quest'opera che presenta escursioni emotive sicuramente più contenute e non soltanto per l'assenza della voce solista.
Tornando alla prima traccia, attraversata dai lunghi e flessuosi assoli del sax (oltre al tenore è presente anche quello alto di Pablo Añón) e dell'organo Hammond di Ricardo Castro Varela, il suo baricentro è sensibilmente spostato verso il jazz con forme che ricordano a tratti quelle di un garbato be-bop elettrificato. Ma una piacevole sorpresa è secondo me rappresentata da un brano come "The Book of Days" con i suoi archi (troviamo un terzetto di ospiti con viola, violino e violoncello) ed il vibrafono scintillante che intesse impalcature sonore di cristallo, sensibilmente più vicino al versante della musica da camera, con uno stile così distante rispetto a quanto sin qui commentato ma così affine in quanto a gusto, senso della melodia ed eleganza. Melodia e sinfonicità attraversano alla stessa maniera la successiva "Those fading hours", tetra e spettrale, con la viola enigmatica dell'ospite Arantxa Vera che catalizza subito l'ascolto dipingendo scenari inquietanti e sinistramente dolci.
Le tastiere, dalle colorazioni sofisticate e metalliche, col Moog in prima fila, si prodigano in assoli complessi, somigliando quasi nella progressione delle note ad una chitarra elettrica e contribuendo alla progressiva crescita del brano che si sviluppa in un mix coinvolgente di suoni che ingloba via via il flauto, il sax e la tromba di Rubén Salvador. Se "Sundial Tick" (stiamo parlando della seconda traccia) è alata e sfuggente e si lascia guidare docilmente dalle melodie ariose del flauto, incoraggiato all'occorrenza da una base tastieristica distante e dagli interventi precisi del sax, "Backwards All the Time" appare decisamente più imponente con fiati ben pronunciati che ricordano un certo jazz dalle inflessioni quasi orchestrali e dagli interessanti riflessi fusion. "About life, memories and yesterdays" ci porta inaspettatamente verso territori cari ai Caravan in un brano che sembra avere le lente cadenze del requiem, impreziosito da una sinfonicità cupa e da un organo Hammond penetrante. I tratti diventano sul più bello ed inequivocabilmente quelli dei King Crimson con accostamenti stilistici pur sempre equilibrati, dominati fino in fondo dal buon gusto e dalla melodia.
41 minuti non sono molti ma sono ben spesi e vale sicuramente la pena impiegarli per un album assolutamente non travolgente ma suonato con grande precisione e che si eleva tranquillamente al di sopra della media.


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Jessica Attene

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