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EGOBAND Tales from the time Ma.Ra.Cash 2016 ITA

Sedici anni di quasi silenzio, inframmezzati solo da sporadici concerti ed un album live nel 2012, avevano fatto temere che la band pisano/livornese avesse rinunciato all’idea di produrre nuova musica. I nostri tornano invece in piena forma, a quanto pare, sempre guidati dal duo dei fondatori Capasso-Accordino, cui si era già da tempo aggregato il chitarrista Simone Coloretti, e col nuovo batterista Adriano Dei. Musicalmente questo nuovo lavoro sembra fare un passo indietro… non a livello qualitativo, bensì stilistico: non molte tracce rimangono infatti delle splendide influenze canterbury di “Earth” e il sound del gruppo torna a farsi graffiante, seppur adesso gli artigli siano ben levigati e quasi gentili, con la solita devozione, equamente divisa, per i Van Der Graaf ed i Marillion dei bei tempi che si stempera in soluzioni armoniche talvolta complesse, con spunti che di tanto in tanto possono ricordarci i Caravan o qualcosa di un po’ più spacey (scelta naturale, vista la tematica spaziale che ricorre nelle canzoni), ancorché sempre in un contesto melodico e prettamente Prog sinfonico.
Si apre dunque questo nuovo album con il cosmico intro di “Return from Trantor”, come a voler dire che il gruppo fa ora ritorno a casa, nella periferia della galassia Prog, dopo tutti questi anni idealmente trascorsi nella capitale della confederazione stellare (un corso d’aggiornamento? :-). Le taglienti note della chitarra, unita a delle tastiere sporche e cattive, ci accompagnano su “Time and Souls”, un brano che odora di Hard Prog anni ’70 con una seconda parte, strumentale, decisamente su alti livelli. La voce di Alessandro Accordino è ancora ben riconoscibile, potente e fragile al tempo stesso, ispirata alla nascita dal nume di Hammill ma sapientemente tenuta alla larga dall’emulazione tout-court. Più recenti sembrano i riferimenti su cui si muove “Black Tears”, brano un po’ meno ispirato, a mio giudizio, e più tendente al versante Marillion, con un lungo assolo finale di chitarra che però da solo vale il prezzo del biglietto.
Sulla successiva “No Fear to Flying” cala il crepuscolo; l’andatura del brano è più lenta e cupa, con tastiere suonate in punta di dita, a tratti quasi liturgiche, e una batteria discreta, su cui Simone Coloretti non può fare a meno di snocciolarci un altro assolo… e noi non chiediamo di meglio. “The Spaceship” è il brano più lungo dell’album, coi suoi 13 minuti e mezzo tutti strumentali, ed anche il più eclettico, con lunghe parti che oscillano tra lo space rock, un gentile soft blues e progressioni sinfoniche; in verità il pezzo sembra una lunga jam, probabilmente originatasi da un’improvvisazione. “Hard Times” torna a far ruggire le strumentazioni, per un brano dai connotati hard blues che ha un qualcosa di sabbathiano. La successiva “Four-Stroke” è una canzone più tipicamente Prog, con un bel cantato e belle orchestrazioni e il solito assolo di chitarra che ci mancava da un po’.
Siamo arrivati alla traccia finale, la quale dura nominalmente più di 10 minuti; in realtà “The Thirteen Towers” (un omaggio all’osservatorio di origine Inca di Chankillo, il cui profilo appare sulla cover del CD) è un pezzo strumentale per chitarra acustica (con qualche discreta nota di synth in sottofondo) che dura poco più di 3 minuti e che, dopo un intermezzo di effetti rumoristici, dà spazio ad una bonus/ghost track cantata in italiano, melodica e romantica, delicatamente blueseggiante.
Il ritorno degli Egoband non è stato dunque lasciato al caso e non lascia adito ad appunti di sorta; la band dà prova di aver ancora qualcosa da dire e riprende le fila da dove era arrivata, 16 anni prima, per proseguire il proprio percorso musicale, dando vita ad un album ben realizzato e certamente godibile nella sua interezza. Se non fosse che comunque il mio album preferito della band rimane comunque “Earth”, si tratterebbe del loro miglior lavoro.


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Alberto Nucci

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