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FRUTERIA TOÑI Tengo mis días buenos autoprod. 2017 SPA

Sappiamo che la frutta matura è più saporita e gli anni trascorsi dal gustoso debutto del 2014, “Mellotron en almíbar”, hanno sicuramente affinato la musica di questo spiritoso gruppo Malagueño. Colori e sapori sprizzano allegramente dalle nuove canzoni che appaiono fra loro più omogenee che in passato. Quell’alternanza fra episodi leggeri e pezzi più impegnativi che aveva caratterizzato il precedente lavoro non la ritroviamo più e tutti gli ingredienti sono stati riversati in modo sparso ovunque a vantaggio di una ricetta finale digeribile, saporita e non priva di fragranze esotiche.
Passando dalla gastronomia alla musica possiamo dire che il nuovo album è dominato da un progressive rock spigliato e melodico, con influenze flamenco, soft jazz e sinfoniche, talvolta dai riflessi Canterburyani, proposto in modo affabile e persino ballabile. Insomma, niente di molto diverso da quanto avevamo già apprezzato qualche anno fa, anche se, livellando il tutto, scompaiono certamente gli episodi più modesti ma vengono anche appiattite le vette e forse, a conti fatti, il risultato finale appare in leggera perdita. Il violino non è più quello di Carlos Fernandez ora sostituito da Victor Rodríguez, ma questo strumento gioca sempre un ruolo di primo piano, intrecciandosi spesso alle eleganti trame pianistiche di Salva Marina, tastierista, chitarrista nonché voce solista in stile “piano bar” forse un po’ insolita per un contesto progressivo. A colorare ulteriormente gli spartiti ritroviamo ancora il prezioso clarinetto ed il sax tenore di Jesús Sánchez mentre la sezione ritmica viene parzialmente rinnovata con l’arrivo del nuovo batterista, Jeimi Montes, che va ad affiancarsi al vecchio bassista Curro García, inventore, pare, del curioso monicker. Alla chitarra elettrica, quando presente, scopriamo invece un paio di ospiti, Miguel Olmedo e Ramón Aranda.
L’incipit un po’ alla Supertramp della title track, collocata subito in apertura, assieme al cantato cabarettistico, ci fanno assaporare subito lo spirito allegro di questo album. Se tutto questo può sembrarvi fin troppo ordinario, ecco che a metà strada si apre una sequenza strumentale dalle venature psichedeliche, sostenuto da una batteria che corre come un treno seguendo un ritmo binario. “La Tostá” si presenta più graffiante, con intriganti riff di violino e tastiere che vengono spazzati via da un condensarsi di atmosfere frizzanti e festose, dal piglio trotterellante e danzereccio. Ecco poi un intermezzo introspettivo, con la chitarra classica e ancora atmosfere psych in una gustosa accozzaglia di accostamenti che non c’entrano nulla gli uni con gli altri, esitando in un lungo strumentale che esplode col violino ricordandoci un po’ la PFM. “Hablar con las estatuas” è dominata dal piano classicheggiante che snocciola poche note, presto spiazzate via da un lento, non privo di aperture sinfoniche con tanto di Mellotron. Anche “La órbita de Venus” procede sciolto e disimpegnato e gode di progressivi arricchimenti sinfonici, col clarinetto ed il violino che si dileguano in un tessuto musicale arioso. “Más de black” è un rock più energico coi suoi riff di chitarra ed una base ritmica ripetitiva e martellante ma dotato anche di sequenze più rilassanti che non portano comunque molte sorprese.”El monstruo de la pantalla final” ci soprende con suo sax Crimsoniano e gli arricchimenti di Mellotron e piano mentre alcune sonorità da videogioco ci ricordano l’argomento principale delle liriche.
Come al solito, quando entra il cantato tutto si semplifica, virando verso formule da intrattenimento anche se le parti strumentali, preponderanti per tutta la durata dell’album, ristabiliscono una sorta di equilibrio artistico. Dopo il breve, soft ed ovattato “Maulidos de gigante” giunge finalmente il brano di chiusura, il più lungo di tutti (quasi 16 minuti) ed anche il più interessante. Cameristico, slanciata e forse anche un tantino RIO con clarinetto, sax tenore e inserti elettrici che donano un po’ di verve a questo album scorrevole e digeribile. L’idea è quella dei Panzerpappa nella loro versione più umana e Canterburyana. La parte centrale di questo brano è più sbilanciata verso il jazz, anche se la musica in realtà non si fa mai audace. Il finale è più sostenuto, con un violino magico ed oscuro, più live nell’impatto. Ancora una volta, all’arrivo del cantato tutto si risolve in una ballad dalle melodie lievi. Questo brano, formato da episodi poco legati fra loro, è sicuramente quello più significativo ma non so se potrebbe essere considerato come una vetta nell’ambito di un’opera sempre equilibrata, eccentrica ma sempre docile all’ascolto.
Mi sento di premiare ancora una volta lo stile personale del gruppo che ha trovato la sua strada grazie ad accostamenti molto particolari, gioiosi ed ironici ma non nascondo che mi piacerebbe, in futuro, che questi musicisti brillanti e simpatici si lanciassero verso soluzioni più complesse, beffarde ed azzardate.



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Jessica Attene

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