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AMAROK (POL) Hunt Musicom 2017 POL

Nel variegato panorama del prog polacco, gli Amarok (da non confondere con gli omonimi spagnoli) portano avanti da quasi venti anni una carriera dignitosa anche se non molto prolifica. In realtà, mai come oggi gli Amarok possono essere visti come un progetto di Michal Wojtas, cantante, polistrumentista e compositore. Il quarto album “Hunt”, a tredici anni di distanza dal suo predecessore, prosegue sulla scia di quanto già fatto in passato, con nove tracce di musica che si muove tra new-prog, space-rock e sound d’atmosfera. Wojtas si circonda per l’occasione di diversi musicisti, alcuni dei quali anche abbastanza noti in ambito prog, a partire da Colin Bass dei Camel (che proprio in Polonia può vantare varie collaborazioni) e passando per Mariusz Duda dei Riverside e dei Lunatic Soul. La musica del nuovo parto degli Amarok si presenta per lo più con un carattere fortemente floydiano, del periodo “The dark side of the Moon” – “Wish you were here”. Ci sono quindi ritmi compassati, ariose atmosfere e trame melodiche che alternano romanticismo e drammaticità. In tal senso, l’accoppiata d’apertura formata da “Anonymus” e “Idyll” è davvero un bel biglietto da visita. E’ con il terzo brano “Distorted soul” che comincia a sorgere qualche perplessità, con ritmi elettronici abbastanza freddi ed un tentativo non del tutto riuscito di imitare i primi Porcupine Tree. L’indirizzo stilistico però è chiaro e si va avanti tra buone intuizioni (le suggestioni della strumentale “Two sides”, in sintonia con quel magnetismo sospeso ed elegiaco trasmesso spesso dai Sigur Ros, “Nuke”, pezzo in cui, probabilmente con la complicità della presenza di Colin Bass, ci si avvicina molto ai Camel e “Unreal”, guidato da chitarra elettrica e tastiere verso un ambient che può ricordare certi episodi dei Djam Karet) e qualche caduta il tono, avvertita soprattutto quando effetti elettronici e loops prendono il sopravvento (“Winding stairs”, “In closeness”). Alla fine c’è poi la pièce de résistence “Hunt”, quasi diciotto minuti in cui Wojtas dà il meglio di sé. Parte con timbri stravaganti ed una introduzione recitata, che lancia qualche riflessione sul ruolo che giocano i social network al giorno d’oggi. Si prosegue alternando momenti cantati ed altri recitati, mantenendo però di fondo un’aura misteriosa, dettata anche da tastiere e chitarre che spingono verso i mondi sonori di Jean Michel Jarre e Mike Oldfield. A volte cresce il pathos, in altri frangenti si avverte una gradevole quiete. Non era facile mantenere un’atmosfera affascinante, senza ricorrere a moltissime variazioni, per tutta la durata della lunga composizione, ma Wojtas ci riesce pienamente. L’album ha una sua precisa identità e, nonostante qualche momento indubbiamente poco ispirato, merita attenzione e mostra un artista voglioso di seguire un percorso influenzato da Pink Floyd e primi Porcupine Tree. Ogni tanto durante il tragitto inciampa, ma quello che conta è che alla fine i sessantadue minuti che abbiamo ascoltato hanno lasciato per lo più piacevoli sensazioni.



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Peppe Di Spirito

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