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PROCOSMIAN FANNYFIDDLERS Happy accident LL Records 2017 NOR

Dopo tanti anni non riesco ancora a capire se questo manipolo di norvegesi dagli pseudonimi demenziali (mi basti citare quello del cantante Pornographic Johnson per rendere l'idea) sia o meno sano di mente. E' certo che dal 1997, anno in cui uscì il loro esordio discografico intitolato "Gold”, i Procosmian Fannyfiddlers ci deliziano, senza raccontare troppo di sé, con le loro stranezze e prodezze musicali. Pochi in realtà sono quelli che li conoscono ed apprezzano ed Arlequins vanta il primato di averne parlato in modo più profuso e direi che il gruppo non è di grande aiuto, preferendo una vita appartata nella fredda Trondheim alla promozione dei loro album. Il nuovo lavoro non ci offrirà certamente la soluzione del caso ma ci dimostra perfettamente che la loro vena goliardica ed irriverente non si è assolutamente esaurita, anzi, con l’età probabilmente e qualche neurone fulminato di troppo il loro stile è divenuto se possibile ancora più avventuroso.
Come nelle migliori delle loro produzioni si fa di tutto per conferire a questo eccentrico prog folk di stampo nordico, non privo di sfumature psichedeliche e sinfoniche, una patina di sporcizia e follia. Non mi spiego come una proposta simile possa risultare così attraente ma, mi spiace per il gruppo, nonostante tutti gli sforzi per rendere la loro musica repellente con testi raccapriccianti ed idioti e sfuriate strumentali tutt'altro che eleganti, il risultato, lo sottolineo, è di grande valore artistico. E' un po' come se il pranzo di Natale vi fosse servito con posate di plastica e terminasse con una gara di rutto libero ma conservasse comunque i sapori autentici della tradizione ed il calore di una atmosfera familiare. Così la musica, spregiudicata e disinvolta, marcia davvero bene, goffa e potente. Lo si avverte fin da subito con “The Plentiful Frog”, il brano di ingresso, dal sound vintage ma sporco e carico. Gli elementi folk, dipinti dal fiddler acido di Black-Metal Ekker (vi avevo già avvertiti sugli pseudonimi), ci aprono nella mente certi scenari nordici con riferimenti che volano ai connazionali Høst mentre la voce di Hebbe Santos è a tratti fiabesca e si alterna a quella più arcigna della sua controparte maschile prima citata. Il gruppo è comunque capace di idee gentili e non possiamo che apprezzare gli intarsi di flauto di Bödd Lut Lindfors o le magnifiche pennellate Mellotroniche di Lord Lusk.
Senza curare troppo la forma i nostri beniamini dimostrano di essere convinti del fatto che tutto ciò che bisogna fare è attaccare la spina e darci dentro fregandosene del risultato finale che rimane nonostante tutto di grande impatto. E così la rotolante “Mullah Bullah Boogie” (i titoli sono decisamente all’altezza dei testi) oscilla fra Jethro Tull e Gentle Giant rivisti in modo assolutamente sgangherato. Forse gli strumenti non sono proprio equalizzati al meglio ma vi assicuro che ve li sentirete tutti sotto la pelle, con pruriti e palpitazioni. Il pezzo è in realtà solo apparentemente disorganizzato e presenta aperture del tutto inaspettate nate da una creatività caotica ma vivace. “Myra the Antique” è ancora frutto di menti a dir poco bipolari o forse multipolari. Ciò che all’inizio appare come una mesta ballad si sposta infine alla ricerca di equilibri più complessi con il Mellotron che si insinua fra i riff ben architettati della chitarra (quella di Fist) e cori spettrali.
I Procosmian sanno essere lirici, potenti ed efficaci, persino Genesisiani se vogliono, quanto sciatti e brutali. E’ necessario quindi riuscire a vedere oltre il polverone sollevato ad arte ed immergersi totalmente nel loro universo. “Wear it like a Clown” sfoggia tonalità prevalentemente acustiche con un uso massivo della chitarra che scivola veloce e leggera rotolando al ritmo di una batteria baldanzosa. Ancora troviamo cori zingareschi ed un violino un po’ strampalato. “Caeni Scriptura (Cult of Coal part II)" riesce ad avere cadenze dai tratti avanguardistici con intrecci tastieristici spettacolari, se riusciamo a concentrarci bene sul lavoro di Lord Lusk che ci stupisce ulteriormente con un finale pianistico classicheggiante.
Per non tediarvi troppo non mi soffermo sui due pezzi successivi, di minutaggio contenuto, lasciando a voi tutto il piacere di scoprirli e salto alla conclusiva e ottava traccia che risponde al titolo di “Cereal Breakfast Killer”. Qui Hebbe riesce ad essere romantica in un contesto che potrebbe persino ricordare dei Jefferson Airplane in salsa nordica. Ci sono poi ampi momenti strumentali con impasti di prog sinfonico un po’ scalcinati ma spassosi che, come al solito, contrastano con la demenzialità delle liriche. Sui testi comunque vi consiglio di non soffermarvi troppo perché potrebbero distogliervi dalla insolita bellezza di una proposta musicale unica nel suo genere.
I Procosmian sono tornati e non sono cambiati, e questo potrebbe bastare per indurvi all’ascolto, mi raccomando, a volume ben alto.



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Jessica Attene

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