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ALAN SIMON Excalibur IV - The dark age of the dragon Babaika Productions / Cherry Red 2017 FRA

Alan Simon è un personaggio il cui nome può risultare un po’ oscuro dalle nostre parti, ma che in Francia, la sua terra d’origine, può vantare un invidiabile seguito, grazie ad una nutrita discografia che dall’inizio degli anni ’90 lo pone come alfiere del rock sinfonico di stampo celtico. A dire il vero, sbirciando la lista degli ospiti che impreziosiscono questo “The Dark Age of the Dragon”, quarto e lungamente atteso capitolo della sua saga “Excalibur”, si comprende quanto la sua fama abbia varcato i confini: troviamo Martin Barre, l’insostituibile chitarra del Jethro Tull, il sax di John Helliwell e gli assortiti talenti di Jesse Siebenberg, entrambi in forza ai Supertramp, l’arpa celtica di Alan Stivell e di Siobhan Owen e le voci di Sonja Kristina (Curved Air), Michael Sadler (Saga), Moya Brennan (Clannad), Bernie Shaw (Uriah Heep), Roberto Tiranti (più noto per la militanza nei Labyrinth, ma anche in forza ai Mangala Vallis ed un passato nei New Trolls) e Maite Itoiz (dagli Elfenthal, un ensemble di musica antica).
Parlavamo di saga; i capitoli della serie “Excalibur”, il cui incipit è datato 1999, sono dischi strutturati in forma di opera rock, o almeno di “concept album” sinfonico, un po’ sulla falsariga delle opere pubblicate dall’olandese Arjen Anthony Lucassen sotto l’egida di Ayreon. Analogamente a quest’ultimo, Simon seleziona scrupolosamente gli ospiti assegnando loro le parti vocali e strumentali più congeniali, incrementando così il potenziale interesse di un ascoltatore altrimenti distratto, ma a differenza delle preferenze prog-metal del collega, è qui la componente folk a prevalere (Alan è nato e cresciuto in Bretagna, terra di ricchissima tradizione musicale), affermazione corroborata anche dalle collaborazioni nei capitoli precedenti di membri dei Fairport Convention, dei Malicorne, dei Tri Yann e di Dan Ar Braz. L’opera, al pari delle precedenti, è stata concepita per una rappresentazione live teatrale, ed i brani sono stati presentati in anteprima durante un mini tour in Germania e Svizzera che ne ha preceduto di diversi mesi la pubblicazione.     
A dire il vero, parlare di folk-rock tout court sarebbe fare un disservizio al disco, o almeno significherebbe mancare di inquadrarlo: la base dei brani è certamente rock, ed una band “elettrica” fornisce la base all’intero album (con un’orchestra sinfonica praghese a supporto), ancorandolo al presente, con il nostro Simon, autore di testi e musiche, relegato a cimentarsi con chitarra acustica, armonica, scacciapensieri e davanti al microfono in un paio di occasioni.
L’album fluisce con una naturalezza sorprendente tra momenti più epici, rock melodico e inflessioni bretoni (diffuse, ma mai prevalenti), inanellando una serie di episodi di indubbia orecchiabilità che certamente conserverebbero la loro dignità anche estrapolati dal contesto. Da menzionare tra gli highlights la romantica “Alone” e “I will be forever”, i due brani cantati da Michael Sadler, così come “Don’t be afraid” e “The new times” affidate alla versatile ugola del nostro Tiranti; “The last lament of a fairy” a cui Siobhan Owen conferisce un gentile e incantato tocco “elfico”, perfettamente in linea con il titolo. Apprezzabili anche il pomp-rock di “Dreamers”, perfetto dunque per le doti canore di Bernie Shaw, le interpretazioni di Moya Brennan che dona vita a due brani che passerebbero altrimenti inosservati e “Behind the mist”, ovvero l’obbligatoria parentesi in stile Jethro Tull, condotta dal flauto di Daniela Piras e dal sax di Helliwell, con Martin Barre (che resta comunque un po’ nelle retrovie) a legittimarne l’ispirazione.
Non mancano momenti più insipidi e zuccherosi come “You are the sunshine”, che gli apporti di flauto e mandolino non riescono a salvare o “The passion”, brano acustico cantato con garbo e compostezza da Sonja Kristina che finisce però per annoiare. Probabilmente i 73 minuti di durata del CD avrebbero potuto giovare da qualche potatura, ma in contesti simili pare che la prolissità sia ingrediente immancabile (pensiamo solo all’altro e più celebre concept arthuriano a firma Rick Wakeman…) e qui in fondo è mitigata dallo sfarzo degli arrangiamenti e dalle buone idee che comunque non latitano mai.
Per molti ma non per tutti: la pomposità di fondo insita in progetti di questo stampo potrebbe rivelarsi scostante per chi ama compositori dall’attitudine po’ più misurata. Premesso ciò, questo “Excalibur IV” è certamente una ghiotta occasione per conoscere il talento multiforme del musicista di Nantes, e magari per scoprire, procedendo a ritroso, ciò che ci eravamo persi in passato.



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Mauro Ranchicchio

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