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BIG BIG TRAIN Grand tour English Electric 2019 UK

Con l’abbandono di Andy Poole, Greg Spawton rimane l’ultimo membro storico di una band che dal 1992, anno di uscita del primo demo su cassetta “From the River To the Sea”, ha fatto tantissima strada. Forti di un bagaglio musicale divenuto ormai pesantissimo, i Big Big Train si preparano per un nuovo viaggio che stavolta li porterà lontano dalle amate terre inglesi che per una lunga serie di album hanno fornito il retroscena ideale e confortevole per canzoni ricche di racconti e di splendidi contenuti sonori. Il lato più romantico e poetico del gruppo, che risplendeva nel precedente “The Second Brghitest Star”, lo ritroviamo qui arricchito da nuovi incanti musicali e ad accrescere il feeling di un sound melodico e carezzevole intervengono due orchestre: una di archi composta da ben 18 elementi ed una di fiati di soli, si fa per dire, 5 elementi, entrambe sotto la direzione di Rick Wentworth. Questa incredibile tavolozza di suoni dona alle 9 canzoni di questo album deliziosi dettagli sinfonici, potenziandone il linguaggio musicale senza però inutili spargimenti di note.
Già da qui potete intuire che il gruppo non ha assolutamente smesso di pensare in grande e senza dubbio la voluminosa confezione cartonata corredata da un foltissimo booklet appare molto eloquente in tal senso. Ma è il concept stesso l’aspetto più ambizioso in assoluto: “Grand Tour” è un viaggio nel tempo e nello spazio attraverso l’Europa di cui vengono celebrate le bellezze artistiche e letterarie in un volo pindarico che tocca il rinascimento italiano, col genio di Leonardo, “The Florentine”, celebra la grandezza dell’impero romano con la trilogia che comprende “Roman Stone”, ”Pantheon” e “Theodora in Green and Gold”, ci conduce lungo le spiagge di Viareggio di inizio Ottocento durante la cremazione del poeta Percy Bysshe Shelley, “Ariel”, ed infine nella profondità dello spazio ripercorrendo l’avventuroso programma spaziale delle sonde “Voyager”. E se è vero che i viaggi più belli sono quelli che ci riconducono a casa mi sembra giusto che un simile excursus debba avere come naturale epilogo “Homesong”.
Ma partiamo dall’inizio: “Novum Organum” si riferisce al titolo dell’opera principale del filosofo britannico Francis Bacon, definito da Voltaire come padre del metodo scientifico. La copertina della prima edizione raffigurava una nave nell’atto di oltrepassare le colonne d’Ercole. Questa è anche l’immagine descritta nelle liriche della traccia di apertura che in qualche maniera alludono ancora al viaggio delle sonde Voyager che sarà ripreso più tardi, a creare un invisibile filo conduttore che lega in qualche modo tutti gli episodi di questo Grand Tour. Per la scienza e per l’arte una nave che naviga in tutti i venti, con i suoni della Terra distante, con parole e un’impronta del cuore. I versi altisonanti sono una sorta di moderna invocazione alle Muse e ci introducono nel cuore del nuovo concept promettendoci grandiose avventure, e così sarà.
Il serpeggiare del vibrafono e le speziate vibrazioni etniche sono come una calda pioggia tropicale su cui plana la voce di David Longdon, ancora una volta grande protagonista di questo album. L’intro è un sospiro lungo due minuti e mezzo che ci lascia sospesi nei nostri pensieri, con l’ansia di chi è in procinto di partire verso ignoti scenari da sogno. “Alive” è un invito a cogliere le opportunità che la vita ci offre. Briosa e dall’appeal new prog, dai ritornelli fin troppo accattivanti e con suggestioni che richiamano i Pendragon, con un tocco di Genesis anni Ottanta. Solare, incalzante, con assoli di tastiere al punto giusto e riff perfettamente incastrati, questa traccia piuttosto diretta non è proprio quella che mi sarei aspettata da un album con tali presupposti ma prendetela semplicemente come un brano di presentazione, come la colonna sonora dei titoli di testa o come l’ouverture che vi accoglie quando si alza il sipario. In realtà i semi di un album delicato come “The Second Brightest Star” (2017) hanno dato i loro frutti, come “The Florentine” sembra confermare. Le sonorità, acustiche in apertura, sono leggere e brillanti, con cadenze che ricordano un po’ il repertorio solista di Phil Collins. Le orchestrazioni si aprono con dolcezza senza inondare gli spartiti ed il brano pian piano prende il volo. Il cantato è sempre centrale mentre la musica, che muta gradualmente i suoi sapori, è delicata ma sempre densa di particolari raffinati ed appena percettibili. Ancora “Roman Stone” si apre con un lungo momento introduttivo che pare lo sguardo di chi contempla rovine maestose testimoni di un passato remoto e grandioso. I suoni orchestrali e gli ottoni si inseriscono in una sinfonia globale in cui l’orecchio deve penetrare a fondo per assaporarne ogni dettaglio. Quando entra la voce solista i suoni sembrano quasi rilucere in trasparenza e l’orchestra fornisce brillanti pennellate di colore senza imbibire un disegno tenue ed emozionante che, nel suo complesso, esprime serenità. Proseguendo oltre nell’ascolto di questo brano, la cui lunghezza supera i 13 minuti, si assiste a un graduale crescendo di complessità con sfaccettature sempre più vivide e progressioni che sembrano rinverdire la visione di un passato imponente che si dissolve infine con un ritorno alle tonalità pacate iniziali, quando tutto sembra nuovamente ridursi in rovina.
I viaggi sono fatti di emozioni e “Pantheon” sembra quasi darci quella sensazione di maestosità e vertigine che si prova quando l’occhio attraversa l’apertura circolare che sovrasta la cupola dell’antico tempio. La ritmica scolpita e gli ottoni incombenti ricordano qualcosa degli After Crying mentre le orchestrazioni elettrificate a dovere con aperture jazz rock hanno un sapore decisamente Crimsoniano, anche se tutto viene declinato in ogni caso con grande equilibrio, senza inutili esibizionismi. “Theodora in Green and Gold” ci rimanda ai colori del celebre mosaico nella basilica di San Vitale a Ravenna che ritrae l’imperatrice bizantina che regnò a fianco di Giustiniano primo, coadiuvandolo ed influenzandolo nella gestione del potere. Brillante come le tessere del mosaico, questo brano, sofisticato e lineare, ha come fulcro, ancora una volta, il cantato che si giova di ritornelli luminosi e cantabili.
Questa leggerezza prepara l’animo dell’ascoltatore ad affrontare quello che secondo me rappresenta il vertice emotivo di tutto l’album, “Ariel”, una mini suite in 8 parti ove vicende reali, quelle che hanno unito Percy Bysshe Shelley, Mary Shelley e Lord Byron, e fantastiche, quelle di Ariel e Prospero, personaggi della “Tempesta”, dramma ultimo di Shakespeare, si intrecciano grazie a straordinari artifici poetici. Il brano inizia con la scena della cremazione di Percy Bysshe Shelley sulle spiagge di Viareggio, come raffigurato in un celebre quadro di Fournier. Il suono delle onde è quello che ci giunge subito alle orecchie e fa da sfondo ad un canto doloroso con cori che sembrano allungarsi come ombre buie. L’incipit è suggestivo e drammatico e le note della chitarra sono come lame lucenti che attraversano l’anima dell’ascoltatore. Dopo un attimo di pausa le note si fanno lontane ed entrano il piano e la voce di Longdon che creano un legame emotivo intenso. La scena si sposta su di un’isola sconosciuta del Mediterraneo in epoca rinascimentale dove lo spirito di Ariel, da anni prigioniero, viene liberato da Prospero, mago e legittimo duca di Milano in esilio. Un ulteriore volo pindarico ci porta a Stratford-Upon-Avon dove lo spirito di Ariel, sofferente per la perdita di Prospero, raggiunge in sogno Shakespeare nutrendone i sogni affinché possa scrivere la loro storia. La musica prende vigore e si materializza una specie canto gospel dalle venature elettriche. Ariel viene qui rappresentato nel suo elemento naturale, l’aria, mentre alimenta una tempesta in mare aperto. In una pineta nei dintorni di Pisa, Percy Bysshe Shelley lavora ad una poesia e, in cerca di ispirazione, ne recita i versi guardando una pozza d’acqua. Ed è così che lo spirito di Ariel viene risvegliato e si rivela al poeta sullo sfondo della musica malinconica e romantica. Il poeta, memore di questa visione, decide di rievocare lo spirito portandosi in mare aperto con la sua nuova barca che decide di ribattezzare proprio col nome di Ariel ma viene sorpreso da una tempesta da cui non farà ritorno. Il dramma diventa tangibile attraverso le note della musica teatrale e melodrammatica che sul finale si ricongiunge emotivamente col punto di partenza, riportandoci sulla scena funebre iniziale.
I miei pensieri hanno indugiato ancora a lungo su questo scenario anche mentre scorreva la successiva “Voyager” e forse proprio per stemperare emozioni così forti e persistenti la nuova traccia è stata disegnata con linee delicate e tonalità soft. Il cantato è carezzevole, la trama ritmica cadenzata e le aperture strumentali aprono spiragli di luce creando momenti di pathos contenuto. Rieccoci infine a casa con “Homesong”, epilogo elegante ove le due componenti orchestrali fanno sentire la loro voce accomiatandosi dall’ascoltatore. Questo finale disteso e sognante lo immagino come un arrivederci a nuove avventure che, oltrepassati i confini inglesi, potrebbero a questo punto condurci ovunque.
Il materiale, come avrete intuito anche solo dalla lunghezza di questa disamina, è tantissimo e tutta l’esperienza del gruppo viene messa a frutto nel migliore dei modi, dosando bene ogni ingrediente nell’ottica di un’opera fruibile, scorrevole ed equilibrata. Alcune tracce hanno un impatto più importante e possono essere considerate forse fra le migliori in assoluto del repertorio del gruppo mentre altre, in ogni caso da non sottovalutare, scivolano via forse con eccessiva leggerezza. Evidentemente il gruppo è stato cauto nel non esagerare in una direzione o nell’altra ed il risultato potrebbe accontentare in effetti un po’ tutti. A conti fatti non possiamo che essere soddisfatti di quest’opera da assaporare a fondo, libretto alla mano, che ha il dono di crescere ascolto dopo ascolto e che promette sicuramente nuove avventure che attendiamo con impazienza.



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Jessica Attene

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