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SPEED LIMIT Speed limit RCA Victor 1975 (Replica Records 2021) FRA

“Se volete che vi dica qualcosa sulla musica che suoniamo, non posso che dire una cosa: bene, è della musica!” Con queste parole il batterista americano di origini ungheresi George Jinda si esprimeva sulla copertina dell’album di esordio degli Speed Limit, comparso sul mercato discografico in sordina, nonostante le buone credenziali fornite dalla serie di ottimi musicisti che vi hanno preso parte e che comprendeva due membri dei Magma e degli Zao e cioè Yochk’O Seffer (sax sopranino, clarinetto basso, flauto e voce) e Joël Dud Dugrenot (basso). Dal canto suo Jannick Top (semplicemente Jannik nelle note di copertina), altro elemento dei Magma entrato nel gruppo in occasione di questo secondo LP per rimpiazzare Dugrenot, in una intervista rilasciata nel 2000, si rifiutò di esprimere commenti circa la sua esperienza di collaborazione con George Jinda negli Speed Limit.
Diciamo che se gli Speed Limit non hanno ricevuto il riscontro che meritavano forse lo devono anche al carattere apparentemente scontroso di questi personaggi. Ma tutto ciò contribuisce senza dubbio ad alimentare il fascino di questo album oscuro, impenetrabile e singolare, una perla nascosta dell’underground jazz prog francese tutta da esplorare e riemersa dalla polvere grazie a questa bella ristampa su vinile. Per accendere la vostra curiosità mi basterebbe dire che troverete a chiudere il lato A dell’album una versione primitiva di “Soleil D’Ork” dei Magma, interpretata dal fuzz-bass di Jannick Top e intitolata in questo caso “African Dance n°3”, ma sarebbe sbagliato limitarsi a questa chicca.
Il disco si poggia su due lunghe suite, la prima, “Time’s Tune”, composta dal pianista Jean-Louis Bucchi, si articola in 4 movimenti e domina il lato A, mentre su quello opposto troneggia l’enigmatica ed affascinante “Pastoral Idyl”, firmata da Seffer e divisa in 5 parti. L’opera sfoggia una intrigante commistione di stili con ruvidi impasti jazz prog movimentati da vivaci guizzi avanguardistici e talvolta da inconfondibili suggestioni Zeuhl. Possiamo gustare quel sapore atavico e tribale tipico di certe creazioni di Miles Davis, come nell’album “Bitches Brew”, ma troviamo anche preziose aperture cameristiche, grazie soprattutto all’apporto degli archi con i violini di Coatantiec, Pierre-Louis, Roland Stepczak e Michel Ripoche (solista) ed il violoncello di Jean-Charles Capon. La voce di Jean-Louis Bucchi interviene senza parole per dar corpo ad elementi vocali dall’oscuro fascino folk e silvestre che ricordano talvolta i tappeti oscuri del Mellotron e che in altre occasioni si avvicinano maggiormente allo Zeuhl. Le due suite, che sembrano non seguire una direzione precisa, somigliano a un incessante girovagare nel folto di una fitta foresta, i cui anfratti offrono scorci sempre diversi con i continui giochi fra luci, ombre, colori e riflessi con dettagli percussivi approntati da un esperto Shiroc (alias Jean-Yves Boedec).
In apertura dell’album “Breeze Borealis” (primo movimento di “Time’s Tune”) ci accoglie in uno di questi scenari incantati con il soffio sinistro del flauto e le voci che sembrano quelle di creature magiche ed invisibili. Questi sinistri presagi musicali vengono presto stemperati da un jazz rock flessuoso dalle intriganti colorazioni tastieristiche. Alla briosa ed anarchica “A Run Around the Block”, attraversata da scorribande di fiati animate dal talentuoso Seffer, subentra una criptica e ancestrale “Jettatura”. A chiudere la prima suite ecco infine il pianoforte glaciale di “Good Night Littre Bear”, così enigmatico e minimalista, preludio efficacissimo verso lo spettacolo conclusivo offerto dalla già citata “African Dance n°3”. “Pastoral Idyl” ci accoglie con uno scorcio di musica contemporanea dalle colorazioni tetre, dominata da archi dissonanti che profumano d’oriente. L’evoluzione successiva segue le linee spezzate e tormentate del basso (“Lemon Tree”) lungo percorsi dai ritmi accidentati che i tasti di Bucchi e Seffer riescono a cavalcare con grande abilità, snocciolando con disinvoltura le loro prove solistiche. “Raching the Star” si fa invece ammirare per le sue spettrali suggestioni cameristiche con un mix di voci ed archi magnetico e dal sapore quasi ultraterreno che è ancora ben evidente nella breve “To the Girl of the Moon” con i suoi canti di sirene. E’ proprio in questo tipo di contaminazioni che il gruppo raggiunge secondo me la sua massima forma espressiva e prova ulteriore ne è certamente la conclusiva “Patoral Idyl Part II”, questa volta più tarata su soluzioni jazz fusion alla Miles Davis ma sempre aperta ad incursioni aliene che oscillano fra lo Zeuhl e la musica da camera.
Questo singolare album era stato ristampato ufficialmente su CD nel 2007 dalla giapponese Belle Antique e nel 2017 dalla Musea; spero però che questa bella ristampa su vinile possa offrire un’ulteriore occasione per riscoprire un’opera a suo modo unica ed inaspettatamente sottovalutata.



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Jessica Attene

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