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ARNAUD QUEVEDO AND FRIENDS Electric Tales autoprod. 2020 FRA

Ai più attenti appassionati di progressive rock non può sfuggire un forte legame che da sempre lega la Francia a Canterbury, quella cittadina inglese che ha visto la nascita di artisti ed album che hanno fatto storia. Senza nemmeno andare a scomodare i Gong, sono davvero tanti i gruppi transalpini autori di dischi estremamente apprezzati e il cui sound deriva sicuramente dalle tracce indelebili lasciate dai canterburiani. Qualche nome? Moving Gelatine Plates (il loro “The world of genius Hans” è uno dei più belli in questo “filone”), Travelling, Triode, Ocarinah, Patrick Forgas e la sua Forgas Band Phenomena, Noetra, Ex Vitae… In tempi più recenti un nome nuovo sta seguendo questo percorso con risultati convincenti. Si tratta del compositore, cantante e polistrumentista Arnaud Quevedo. Esibendosi con chitarra, batteria e tastiere, per questo “Electric tales” si fa aiutare dai suoi “Firends”, che rispondono ai nomi di Noe Russil (basso e voce), Eva Tribolles (contrabbasso e voce), Lucille Mille (flauto e voce) e Julien Gomila (sassofoni). La partenza è affidata ad una “Electric overture”, che con poche note, mischiando suoni elettrici e acustici, ci porta subito in quel magico mondo canterburiano di docili, ma fantasiose, melodie. Senza soluzione di continuità, si entra nel vivo del lavoro con “The dark jester”: testo in inglese, chitarra elettrica tagliente, fiati a ricamare e a svolazzare, contrabbasso che a momenti prende la guida, ritmi vivaci, qualche stranezza gonghiana ed un jazz-rock che intriga. Le due parti di “The electric princess” assorbono buona parte del disco totalizzando oltre diciotto minuti nei quali le capacità di composizione di Quevedo e le sue influenze emergono bene. Le commistioni elettroacustiche restano il punto forte del processo di contaminazione che l’autore prova a portare avanti e sembra abbastanza riuscito il mix di sonorità che rievocano trame care a nomi storici quali Gong, Soft Machine, Hatfield & The North, ma anche ai primi Mirioror e a quei Philharmonie, connazionali e splendida creatura del Fréderic L’Epée post Shylock. Tra accelerazioni e momenti di quiete e di preparazione a nuove esplosioni, Quevedo si esibisce con una chitarra nervosa e con un piano elettrico che crea particolari atmosfere, ma flauto, sax e contrabbasso sono sempre in agguato e pronti ad inserirsi abilmente. I successivi brani, pur legati l’un l’altro, hanno una durata più contenuta e alternano improvvisazioni “preparatorie” in cui non si perde il feeling (“Entering…” e “Flower fields”), jazz-rock progressivo fluido, con riff infuocati e tecnicismi, ma senza esasperazioni (“Mushi’s forest”, “Hope”), fusion funkeggiante (“The hypothetical knight”, “Electric dreamer”). Non siamo di fronte ad un disco sconvolgente e, come chiaramente indicato, le influenze sono nette. Ma, grazie ad un songwriting solido ed equilibrato, le composizioni risultano validissime e sono ben suonate, l’abbinamento tecnica/feeling è costante e di sostanza ce n’è tanta. Le impressioni finali per “Electric tales”, quindi, sono ampiamente positive.



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Peppe Di Spirito

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