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FLAME DREAM Elements Vertigo 1979 (autoprod. 2025) SVI

“Elements”, secondo album degli svizzeri Flame Dream, uscito originariamente a cavallo tra 1979 e 1980, è anche il secondo lavoro che la band pubblica ufficialmente in formato cd, dopo “Out in the dark” di qualche mese fa. Il gruppo, dopo “Calatea”, dell’anno precedente, aveva perso il chitarrista (e vocalist) Urs Waldispühl, ed era ora un quartetto: Roland Ruckstuhl (tastiere), Peter Wolf (voce, flauto, sax, oboe), Urs Hochuli (basso e voce) e Peter Furrer (batteria). “Elements” è, di fatto, un concept incentrato sui quattro elementi (fuoco, acqua, terra ed aria) e presenta liriche tratte da opere di Edmund Spenser, Ralph Waldo Emerson, John Davies mentre un testo è di Peter Wolf. L’assenza della chitarra amplifica, ovviamente, le soluzioni che vedono le tastiere assolute protagoniste anche se il flauto e il sax offrono opzioni alternative ed altrettanto riuscite. Le influenze sono le solite: i Genesis, gli Yes, i Gentle Giant ma, bisogna comunque riconoscere che il sound risulta sempre abbastanza originale, facilmente riconoscibile, con ottime melodie e “fresco” in un periodo in cui il prog era entrato nel libro nero di media e pubblico. Appare, dunque, paradossale e certamente coraggiosa la scelta stilistica di questi quattro ragazzi (all’epoca…), così controcorrente, malgrado qualche anticipazione “new wave” del sound potesse comunque fare presa sulle nuove generazioni. “Sun fire” apre l’album in un florilegio di tastiere, con le ritmiche che rimandano agli Yes mediati (in modo certamente inconsapevole) con quanto proposto dai (molto) meno conosciuti England o Easter Island, ma anche dal secondo album degli U.K. (le tastiere…). “Sea monsters” non disdegna soluzioni vocali a là Gentle Giant, mentre dal punto di vista strumentale più Genesis (“Wind & Wuthering”) che Yes stavolta.”Earth song” comincia in pieno Shulman, Shulman & Minnear style (“Design”?), con il cantato “sghembo” di Wolf a ricordare quello di Derek e le soluzioni ritmiche complesse. Una spruzzatina di Canterbury e di jazz rock ed il gioco è fatto…bene… Con “A poem of dancing” tutti questi rimandi emergono in modo ancora più convincente: soluzioni corali di prim’ordine (facciamo gli “originali”... Yezda Urfa…), il flauto ad evocare atmosfere bucoliche, suoni di tastiere di gran gusto, basso possente. Inspiegabile, o quasi, il minuto e mezzo conclusivo di “Savate? Nose!” per soli sax e tastiere. Si chiude così un ottimo album di prog sinfonico, tra i migliori usciti alla fine degli anni settanta/ inizio ottanta e che finalmente è fruibile in formato cd per la gioia degli appassionati e di coloro che non possono permettersi il long playing originale e che (magari)avrebbero preferito pure una ristampa del vinile… ma accontentiamoci.

 

Valentino Butti

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