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DREAM THE ELECTRIC SLEEP Lost and gone forever autoprod. 2011 USA

Dietro la sigla DTES (per esteso “Dream The Electric Sleep”, citazione della celebre opera di Philip K. Dick) si cela un quartetto proveniente da Lexington, Kentucky, nato dalla fusione delle band indie locali Jack (da cui provengono il vocalist/chitarrista Matt Page, il secondo chitarrista Trevor Willmott ed il batterista Joey Waters), Chum e Hyatari (in cui militava il bassista Chris Tackett).
Per l’esordio discografico, i quattro hanno scelto la strada dell’autoproduzione e si sono avventurati coraggiosamente in direzione del concept album, per raccontare le tribolazioni di Jack, minatore di carbone negli Appalachi dell’East Kentucky e di sua moglie Clementine, vicenda liberamente ispirata alle vite dei nonni di Matt Page, autore delle liriche, nonché alla canzone popolare western “Oh my darling Clementine” rievocante l’epoca della “febbre dell’oro”.
Il prodotto di due anni di lavoro è questo ambizioso “Lost and gone forever” dalla durata di oltre 75 minuti, in forma di tre atti e con ciascun brano interpretato idealmente da uno dei personaggi della storia.
Per descrivere la musica proposta dai DTES, partiamo dalla definizione che loro stessi hanno fatto propria prendendo a prestito l’etichetta forgiata da un critico: “prog-shoegaze”, per formalizzare un crossover in cui convivono elementi di prog e hard rock anni ’70 (Rush, Pink Floyd, Led Zeppelin) e influenze più recenti riconducibili sia al rock alternativo che a quello più mainstream (i Radiohead di “The Bends”, gli Oceansize, gli U2, i Soundgarden).
La stessa strumentazione utilizzata potrebbe suggerire quanto appena affermato, limitandosi alla classica combinazione voce/chitarre/basso/batteria, con sporadici interventi di tastiere (l’ospite Alex Head) e di banjo, strumento imparato per l’occasione da Matt per rendere più autentica la componente folk appalachiana, elemento comunque presente in modo marginale in una proposta fondamentalmente elettrica.
La title-track che apre l’album, a dire il vero, rispecchia l’approccio Floydiano di band come i Porcupine Tree, sia per l’impiego di chitarre ad ampio respiro che per le armonie vocali, ma è con la successiva “Coal dust and shadows” che riusciamo a formarci un’idea più chiara sulle costanti che pervaderanno l’album intero: l’importanza dell’interpretazione vocale, la chitarra solista debitrice di David Gilmour, un basso di scuola Rush che riesce a non farsi “affondare” dagli altri strumenti nonostante la registrazione sia spesso e volentieri appiattita sulle frequenze intermedie.
Per quanto riguarda le composizioni, abbiamo brani di durata media e di complessità appena superiore alla norma (se così si può dire): i meriti dei DTES non vanno ricercati nell’intricatezza sonora, bensì nella buona ispirazione che produce interessanti risultati, come la struggente ballad in stile Radiohead “Canary”, in cui Matt sfodera al meglio le sue capacità vocali con un’interpretazione viscerale, la lunga ed inneggiante “Listen to me”, epica quanto lo erano Bono Vox & co. negli anni ’80, la parentesi neoprogressiva di “Stay on the line”, che trovo reminiscente dei Relayer (la band dell’Illinois), la precaria calma acustica di “Echoes chasing echoes” che sfocia in un epilogo maestoso o i riff di chitarra downtuned in stile Black Sabbath di “The Joneses”.
A questo proposito, c’è da sottolineare l’intelligente impiego della doppia chitarra e dei relativi effetti: l’abbinamento dei due strumenti avviene sempre con suoni complementari, facendo sì che si mantenga un’apprezzabile varietà di timbriche nonostante la tavolozza sonora sia apparentemente limitante.
Ad essere sinceri, la durata dell’opera fa sì che inevitabilmente l’attenzione si affievolisca nella seconda metà dell’album, non tanto per la qualità dei brani quanto per un’uniformità stilistica che alla lunga li rende meno distinguibili: probabilmente le necessità narrative della storia e l’entusiasmo hanno portato ad una lunghezza un po’ eccessiva (la band prevede di pubblicare anche un EP di brani rimasti fuori dal disco…); ciò nonostante, non ho remore a consigliare l’ascolto di quest’album, estraneo sia ai classicismi del rock sinfonico che alle modaiole e ubique tendenze prog-metal, approfittando magari del download gratuito che il gruppo ha messo a disposizione sul proprio sito web.


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Mauro Ranchicchio

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