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DOUBT Mercy, pity, peace & love Moonjune 2012 UK/USA/BEL

Torna dopo due anni il trio anglo-belga-americano dei Doubt, che nel 2010 aveva esordito con un ottimo album caratterizzato da una sintesi di jazz-rock e Canterbury sound impregnata con un certo gusto per l’improvvisazione e suoni (apparentemente) caotici. “Mercy, pity, peace & love” (titolo e concept dell’album fanno riferimento all’opera del poeta e pittore William Blake) propone ancora una volta un bagaglio di influenze capaci di dare vita ad un coacervo di stili musicali che sembra lottare per amalgamarsi in un tutt’uno coerente e coeso, ma che ad un attento ascolto trova la sua giustificazione proprio nell’essere vario e poco integrato, come un cocktail multicolore o come i liquidi degli esperimenti scientifici per ragazzi che si stratificano uno sopra l’altro in fasi cromatiche diverse.
L’album presenta una varietà anche maggiore rispetto a “Never pet a burning dog”, e un’attitudine a prima vista appena più fusion e jazz. Ciò è evidente in “Jalal”, brano costruito su una linea ritmica ossessiva che supporta gli interventi solisti di chitarra e tastiere, quando non sono quelli della stessa batteria a prevalere. “No more quarrel with the devil” cambia immediatamente le carte in tavola grazie a pesanti riff quasi alla Black Sabbath o ricordanti i King Crimson meno mellotronici. Suoni hard rock quindi, ma stipati in un’atmosfera plumbea e con una spiazzante e breve marcetta melodica a chiudere il tutto. “Rising upon clouds” ha invece una curioso mood sghembo, con i piatti della batteria che sembrano creare una pioggia di gocce d’acqua di cui s’inzuppa un pianoforte frenetico. Segue una versione acida di “Purple haze”, che ben si sposa con lo stile ossessivo dei Doubt e con la loro capacità di afferrare una linea melodica e rivoltarla a piacimento per renderla meno convenzionale. Dopo tanta furia, la delicata e soffusa fusion di “The invitation”, con suoni quasi alla Pat Metheny, è un’oasi ristoratrice nel deserto, capace di rilassare le orecchie e la mente prima di tornare alle melodie stranianti e oblique dei brani successivi, tra lo space jazz-rock schizzato di “The human abstract”, il jazz-rock dal sapore vintage di “Mercury” e le folate di vento mellotronico della conclusiva “Goodbye my fellow soldier”.
“Mercy, pity, peace & love è una piacevole conferma, una rassicurante prova della fantasia di tre musicisti capaci di sperimentare senza annoiare e senza ripetersi. L’augurio è che possano continuare ancora a farlo per molto tempo.


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Nicola Sulas

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