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DWIKI DHARMAWAN Pasar klewer Moonjune Records 2016 INDN

È oramai assodato che l’etichetta di Leonardo Pavkovic abbia posato con un certo interesse lo sguardo sulla scena musicale indonesiana. Una dimensione che sembrerebbe avere ancora qualcosa di parzialmente inedito da dire, sia per i contenuti che per il genuino entusiasmo. Il numero di pubblicazioni a nome di artisti provenienti dal Paese asiatico cresce sempre di più ed il nome del pianista Dwiki Dharmawan va ad aggiungersi ad un gruppo di musicisti che quasi sicuramente crescerà ulteriormente. Dalla carriera ormai trentennale, Dharmawan pubblica il suo secondo album su Moonjune, un doppio, concentrandosi maggiormente sia sull’aspetto squisitamente jazzistico che su quello etnico. Sullo stile di quel mercato ritratto in copertina e riportato nel titolo in lingua madre, la pubblicazione in questione è concepita come un insieme di voci, colori e suoni, che a volte cozzano anche tra loro. Di sicuro, il riferimento gamelan, con relativa Gamelan Jess Jegog orchestra in alcuni brani, risulta essere una dichiarazione di intenti ben precisa: trattasi infatti – tecnicamente – di un'orchestra di strumenti musicali che comprende metallofoni, xilofoni, tamburi e gong, a volte anche con flauti di bambù, strumenti a corda e voce, tutti intonati per suonare assieme. La connotazione del lavoro va anche imputata alla scelta dello stesso Pavkovic: registrare l’album a Londra, con musicisti che orbitano nell’area londinese… ma che non sono nemmeno lontanamente inglesi! Ecco quindi che a Dharmawan viene affiancata una sezione ritmica israeliana, formata da Yaron Stavi (basso) e Asaf Sirkis (batteria), assolutamente vibrante ed incisiva. L’iniziale title-track colpisce immediatamente per il suono tanto limpido quanto intenso del pianoforte, sullo stile di Keith Jarret o forse ancor di più di Lyle Mays, visto l’approccio che segue immediatamente, con la densa ambientazione ethno-fusion in cui si tuffa senza esitazione la chitarra di Mark Wingfield (l’unico britannico!), ricreando un prodotto che ricorda per forza di cose Pat Metheny e tutta la sua pletora di ineffabili musicisti. Oltre dodici minuti che scorrono velocissimi, con ottimi assoli jazz sui tasti d’avorio ed un grande turbinio scatenato grazie alla focosa sezione ritmica di cui sopra, fino al culmine del “rumorismo” gamelan di cui si parlava prima. Una breve pausa scandita dal basso, prima di una nuova rincorsa a perdifiato dove rientrano ad uno ad uno tutti gli strumenti, terminando con un liberatorio: “Yeah!”.
Il clarinetto di Gilad Atzmon – altro israeliano che incide profondamente su buona parte del lavoro – e le percussioni gamelan dell’indonesiano Aris Daryono aprono i quasi nove minuti della misteriosa e suadente “Spirit of Peace”, dove il pianoforte si insinua nei sensi come una favola notturna da “Mille e una notte”. È proprio Atzmon a dettare inizialmente i tempi, prima di lasciare il passo alla chitarra acustica dello svizzero Nicolas Meier e allo stesso Dharmawan, ispirato dalla visione di qualche oasi nel chiaroscuro di un tramonto già lasciato alle spalle (immancabili i rumori onomatopeici, che si sarebbero comunque potuti evitare). Le solite percussioni etniche si fanno strada senza ritegno in “Tjampuhan”, distogliendo il passo al sax soprano di Atzmon, che sembra persino lamentarsi in quello che poi diventa un caos free, facendo poi prendere forma alla quiete dopo il quinto minuto, anche se la rabbia del sax va gonfiandosi in maniera inesorabile. A sorpresa, viene proposta la cover di “Forest”, composizione firmata Robert Wyatt e contenuta nel suo “Cuckooland” (2003), che dura esattamente otto minuti come l’originale. Immersi nei suoni della foresta, la versione appare decisamente più “concreta” anche grazie alla voce del nostrano Boris Savoldelli, con meno disarmonie, mantenendo comunque la vecchia ispirazione canterburyana e distinguendosi nella seconda parte per gli assoli leggeri sia di Dwiki che del chitarrista Wingfield. Siccome la strada per Canterbury era stata già presa, ecco che Leonardo Pavkovic suggerisce di fare una jam; appassionato per l’appunto di Wyatt, autore tra le altre cose di “Moon in June” su “Third” ai tempi dei Soft Machine, e tenendo anche conto che la label di Pavkovic si chiama “Moonjune Records”… perché non partire da quel tema portante ed improvvisare? Ecco che nasce “London in June”, gioco di parole dedicato alla città che ospita le registrazioni, con i vocalizzi dello stesso Savoldelli ed alcune puntate chitarristiche di Meier. Risultato finale interessante, ma non molto di più.
Il secondo dischetto appare più “colorato” fin dal supporto ottico nudo e crudo; “Lir Ilir” sarebbe un brano tradizionale che si apre con la litania sud-asiatica cantata da Peni Candra Rini, fino a che, dopo il terzo minuto, la musica vira in direzione di un jazz-rock scattante e nervoso, con un Meier che corre velocissimo sulla chitarra acustica, mentre i vocalizzi riprendono forma alle sue spalle. Molto nostalgica e struggente la versione di “Bubulay Bulan” di Benny Corda (invero nettamente migliore dell’originale, che in realtà era una canzoncina commerciale), resa tale dal clarinetto di Atzmon e da un pianoforte molto poetico. “Frog dance” vede protagoniste… le rane balinesi, peraltro accreditate pure sulle note di copertina. Poco meno di undici minuti, che nel suo positivo crescendo si dimostra forse la composizione più bella, grazie al sax soprano del solito Atzmon, la cui emozione sale sempre più di livello, dall’andamento a tratti persino stentato, ma capace di raggiungere un culmine che verrà ascoltato e riascoltato molte volte. Tutto questo avviene prima di lasciare la strada libera a Dharmawan, che illumina con una lieta serenità nello stile di T Lavitz, ripassando poi il testimone proprio al sax saltellante che torna per chiudere i giochi. Nettamente più oscura “Life Its Self” firmata da Sirkis, aperta dalle note acute e “scivolate” di Wingfield, con il contrabbasso di Stavi che sa tanto di vecchia scuola jazzistica ed il pianoforte cangiante, mentre la chitarra rientra con fare quasi Frippiano, facendo salire la tensione in maniera esponenziale. “Purnama” è invece agli antipodi, molto quieta, carezzevole e dai risvolti passionali, ottimamente giocata tra il piano di Dwiki e l’acustica di Meier (non a caso, il termine indonesiano in questione vuol dire “plenilunio”). Finale affidato alla versione strumentale di “Forest”, dove la parola è lasciata alla chitarra distorta di Mark Wingfield, il quale riesce a mettere in chiaro le cose pur senza alzare per niente la voce, intrecciandosi poi con le note di Dharmawan.
Per concludere l’ampia descrizione: questo doppio album è molto bello, anche se forse i pezzi sono tutti un po’ troppo lunghi ed alcune parti sarebbero potute essere sintetizzate senza correre il rischio di perdersi qualcosa per strada. La percezione del tempo di ogni cultura è però differente, quindi ben venga l’ascolto di un artista che sembra percorrere una strada decisamente creativa.


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Michele Merenda

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