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ESTHEMA |
The long goodbye |
autoprod. |
2014 |
USA |
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Diamo il benvenuto a questo terzo album in studio degli Esthema, band americana che volge il suo sguardo verso mondi lontani, raccogliendone fragranze ed immagini sonore e fondendole insieme in modo inedito e personale. L’arrivo in formazione del violoncellista palestinese Naseem Alatrash e del percussionista cipriota George Lernis (che sostituisce l’uscente Bruno Esrubilsky) è senza dubbio un’opportunità per ampliare i propri orizzonti sonori, come testimonia concretamente “Reflections From the Past”, brano che parla della nostalgia di luoghi e persone care, come quella che si impadronisce di chi ha due case lontane fra loro, come appunto Cipro e gli Stati Uniti. George Lernis, in questa sua composizione, è riuscito a creare un ponte musicale fra terre distanti, ricorrendo a versatili impalcature Jazz e a suoni, ritmi e scale del Medio Oriente. In partenza ecco un soft jazz serpeggiante, scandito dai fruscii della batteria, le note si allungano lentamente come ombre della sera e gli archi sono sospiri appena percettibili. La musica è passionale, nostalgica, eterea e sognante, le melodie hanno un che di classicheggiante ma sono colorate da elementi etnici. Ed ecco infine che il brano prende vita grazie a ritmi cadenzati e allo scintillio del bouzouki e dell’oud che Mac Ritchey (giunto a sostituire Tery Lemanis) suona sia in versione acustica che elettrica. L’intero album è fatto in realtà di visioni e di meravigliosi paesaggi sonori. E’ più oscuro rispetto ai suoi predecessori (gli ottimi “Apart from the Rest”, l’esordio del 2007, e “The Hereness and Nowness of Things” del 2009) ma anche più pittorico e introspettivo. Come ci spiega il leader e chitarrista Andy Milas, autore della quasi totalità della musica, l’opera si ispira alla dinamica delle relazioni che ci legano alle persone attorno, fatte di empatia ma anche di incomprensioni e contrasti. I diversi elementi musicali sembrano riflettere i mutevoli aspetti dell’animo umano che a volte è fonte di equilibrio ed armonia ed altre volte invece genera tensioni e conflitti. Ogni brano si ispira a episodi e riflessioni della vita reale e ne traduce in musica le emozioni. Sul profilo musicale il folk, dai lineamenti prevalentemente mediorientali ed anatolici, prende vita attraverso le colorazioni speziate mentre i ritmi sono essenzialmente occidentali e di stampo jazz rock. Gli archi (oltre al violoncello c’è il violino di Onur Dilisen, musicista di origini turche) donano alle composizioni un’aura estremamente elegante; a volte sfoggiano un sofisticato taglio accademico ed altre volte riflettono, in modo splendido ed enigmatico, qualcosa della musica araba classica. I diversi stili vengono poi fusi in un insieme armonico e coerente con una chiara attitudine progressiva. Il lungo addio al quale si riferisce il titolo dell’album è quello che inizia con la diagnosi di una malattia da cui non è possibile guarire. Proprio in quel momento ci si prepara a lasciarsi per sempre in un lento conto alla rovescia. Questo tema è affrontato nell’omonima traccia di chiusura, l’ottava per la precisione, una sinfonia struggente fatta di lunghe pause e di silenzi solcati dalla musica, dolce e drammatica allo stesso tempo. Gli archi sono crepuscolari e arrivano a pungere direttamente il cuore, le percussioni hanno una ritmicità quasi solenne ed i suoni sono oscuri e bloccano per un momento quasi il respiro. A questo scenario se ne alternano altri più densi di chiaroscuri, più spezzettati e quasi Crimsoniani, che rendono questa traccia, dall’emotività incerta ed altalenante, estremamente vitale ed interessante. Il sound è moderno e sfoggia la giusta punta di elettricità e le giuste vibrazioni, rafforzate da tonalità piacevolmente folkish. Sempre basata su emozioni contrastanti è la mini-suite di apertura che si estende nell’arco delle prime tre tracce, “Three Sides to Every Story”. In questo caso, come ben descritto nelle note di copertina, la musica ci dimostra come due individui possano partecipare alla stessa conversazione senza ascoltare cosa si dicono, fornendo due versioni della stessa storia. Ecco quindi un piacevole susseguirsi di visioni malinconiche fatte di arpeggi delicati ed archi flebili ed indugianti e di atmosfere più tese in cui i suoni, in parte elettrici, si affacciano come bussando con insistenza. La batteria si alterna alle percussioni tradizionali, frammenti di musica araba aggiungono un alone di mistero, l’aria sembra quella pungente che preannuncia la tempesta imminente, quando ecco tornare melodie romantiche, ritmi felpati, piccole suggestioni classiche, finché il brano scivola via come un bel sogno che si dissolve alle prime luci dell’alba. “Fire and Shadow”, composta stavolta da Onur Dilisen, sta lì per ricordarci, con i suoi contrasti, che la vita è fatta di alti e bassi. Lenta e ombrosa, quasi gotica, dal drumming preciso e squadrato, cede ad aperture malinconiche e a morbide effusioni jazz. Belle le propulsioni del basso, suonato da un’altra new entry, Tom Martin, giunta al posto di Ignacio Long. Fra le altre tracce spicca poi “Reminiscence” per le sue continue oscillazioni di colori e fragranze, basata questa volta su sequenze più ritmate dalla fisionomia quasi anatolica. Le sue atmosfere da “Mille e una notte” parlano dei ricordi che riaffacciandosi alla mente ci lasciano sul volto un fugace sorriso. A questo punto manca alla nostra disamina soltanto “Without A Moment’s Nitice”, brano disteso e pensieroso che parla di come la vita possa cambiare e non essere più quella di prima, anche quando tutto sembra tornare alla normalità. La sua poesia senza fine, il drumming discreto, le fragili melodie disegnate dagli archi e gli arpeggi luccicanti degli strumenti a corda ne fanno uno splendido dipinto di suoni. Tutte le composizioni, interamente strumentali, come avrete capito, sono suggestive e di alto livello. Appaiono complesse e fragili allo stesso tempo, sono enigmatiche ed eteree, romantiche ed inquiete. Ogni particolare converge in un sound davvero unico che si giova tra l’altro del contributo prezioso dell’oud elettrico di Mac Ritchey che riesce ad intessere ambientazioni e sfondi sonori molto particolari e senza l’ausilio di sintetizzatori che invece a volte sembra quasi di percepire come uno strano miraggio. Questo album è un viaggio nel nostro cuore e in terre che non esistono, lo consiglio così come a suo tempo ho fatto per i suoi predecessori e lo candido al tempo stesso e inevitabilmente per la mia lista personale di fine anno.
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Jessica Attene
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