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Credo che gli Enid non finiranno mai di stupirmi. Ormai da tempo la band sembra aver trovato una nuova giovinezza creativa e una prolificità unica. Il perno attorno al quale ruota tutto è sempre Robert John Godfrey, nonostante l'annuncio dato in rete, probabilmente sotto l'effetto dello sconforto, riguardo alla malattia e alla decisione di voler cercare un sostituto (follia!) per mandare avanti il gruppo. Nel 2015, difatti, gli Enid sono ancora in vita, producono album, in studio o dal vivo, e vanno in tour, curando al contempo un costante rapporto coi fan, i quali rappresentano probabilmente uno degli zoccoli duri più fedeli del progressive. A tre anni dal precedente, arriva un nuovo lavoro e la curiosità, almeno per quanto mi riguarda, è parecchia, dato che replicare l'eccezionale qualità di "Invicta", seppure difficile, è assolutamente un compito alla portata di R. J. Godfrey. In realtà basta poco per capire che "The bridge" è un lavoro abbastanza atipico per gli Enid, a partire dal suo essere interamente cantato. L'album è infatti una passerella per la voce di Joe Payne, il quale scrive quasi tutti i testi, mentre la musica è una sorta di pop classico che rinuncia alla componente rock per basarsi sul pianoforte e l'orchestra (presumibilmente sintetica, dato che non è presente alcuna indicazione su musicisti reali). Totalmente assente la sezione ritmica, a confermare lo sbilanciamento verso la componente classica. Importante evidenziare, inoltre, che le tracce sono in massima parte rielaborazioni più o meno spinte, anche con nuovi titoli, di vecchie composizioni pescate tra gli album degli anni '80 e '90. Il risultato è come una breve (trentotto minuti, bonus track compresa) raccolta di racconti o di quadri dipinti con la musica, traboccanti di melodia e dallo sviluppo leggermente meno ardito rispetto al consueto Enid-style, perlomeno in certi brani. Spiccano al di sopra della media alcune tracce, ad esempio l'iniziale "Earthborn", che sfodera un romanticismo da brividi, la movimentata "Bad men", con un arrangiamento basato sui saliscendi del pianoforte e un testo da filastrocca per far spaventare i bambini cantato in maniera molto teatrale da Joe Payne, poi "My gravity", lunga e complessa nei suoi cambi d'atmosfera strumentali e vocali e dall'andamento quasi wagneriano. I restanti brani sono generalmente più rilassanti e meditativi ma presentano di tanto in tanto momenti memorabili, come il crescendo di "Wings" o le atmosfere sospese di "First light" (tra l'altro l'unico brano la cui musica è stata scritta da Max Read invece che da Godfrey). "The bridge" è un disco degli Enid in modo pieno ma lo è in maniera diversa rispetto a ciò a cui siamo abituati. Si tratta di un tentativo di approfondire il lato sinfonico della band e quello da sempre meno conosciuto della parte vocale, almeno sino al recente ingresso in pianta stabile nella formazione di Joe Payne, dotato di una voce incredibile giustamente da valorizzare e "sfruttare". L'ascolto, inoltre, va affrontato prescindendo da qualunque definizione di progressive o di rock. Per questi non resta che attendere il primo aprile 2016, data della pubblicazione di "Dust", nuovo lavoro con la band al completo definito come la conclusione della trilogia comprendente "Journey's end" e "Invicta".
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