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Sedici anni di quasi silenzio, inframmezzati solo da sporadici concerti ed un album live nel 2012, avevano fatto temere che la band pisano/livornese avesse rinunciato all’idea di produrre nuova musica. I nostri tornano invece in piena forma, a quanto pare, sempre guidati dal duo dei fondatori Capasso-Accordino, cui si era già da tempo aggregato il chitarrista Simone Coloretti, e col nuovo batterista Adriano Dei. Musicalmente questo nuovo lavoro sembra fare un passo indietro… non a livello qualitativo, bensì stilistico: non molte tracce rimangono infatti delle splendide influenze canterbury di “Earth” e il sound del gruppo torna a farsi graffiante, seppur adesso gli artigli siano ben levigati e quasi gentili, con la solita devozione, equamente divisa, per i Van Der Graaf ed i Marillion dei bei tempi che si stempera in soluzioni armoniche talvolta complesse, con spunti che di tanto in tanto possono ricordarci i Caravan o qualcosa di un po’ più spacey (scelta naturale, vista la tematica spaziale che ricorre nelle canzoni), ancorché sempre in un contesto melodico e prettamente Prog sinfonico. Si apre dunque questo nuovo album con il cosmico intro di “Return from Trantor”, come a voler dire che il gruppo fa ora ritorno a casa, nella periferia della galassia Prog, dopo tutti questi anni idealmente trascorsi nella capitale della confederazione stellare (un corso d’aggiornamento? :-). Le taglienti note della chitarra, unita a delle tastiere sporche e cattive, ci accompagnano su “Time and Souls”, un brano che odora di Hard Prog anni ’70 con una seconda parte, strumentale, decisamente su alti livelli. La voce di Alessandro Accordino è ancora ben riconoscibile, potente e fragile al tempo stesso, ispirata alla nascita dal nume di Hammill ma sapientemente tenuta alla larga dall’emulazione tout-court. Più recenti sembrano i riferimenti su cui si muove “Black Tears”, brano un po’ meno ispirato, a mio giudizio, e più tendente al versante Marillion, con un lungo assolo finale di chitarra che però da solo vale il prezzo del biglietto. Sulla successiva “No Fear to Flying” cala il crepuscolo; l’andatura del brano è più lenta e cupa, con tastiere suonate in punta di dita, a tratti quasi liturgiche, e una batteria discreta, su cui Simone Coloretti non può fare a meno di snocciolarci un altro assolo… e noi non chiediamo di meglio. “The Spaceship” è il brano più lungo dell’album, coi suoi 13 minuti e mezzo tutti strumentali, ed anche il più eclettico, con lunghe parti che oscillano tra lo space rock, un gentile soft blues e progressioni sinfoniche; in verità il pezzo sembra una lunga jam, probabilmente originatasi da un’improvvisazione. “Hard Times” torna a far ruggire le strumentazioni, per un brano dai connotati hard blues che ha un qualcosa di sabbathiano. La successiva “Four-Stroke” è una canzone più tipicamente Prog, con un bel cantato e belle orchestrazioni e il solito assolo di chitarra che ci mancava da un po’. Siamo arrivati alla traccia finale, la quale dura nominalmente più di 10 minuti; in realtà “The Thirteen Towers” (un omaggio all’osservatorio di origine Inca di Chankillo, il cui profilo appare sulla cover del CD) è un pezzo strumentale per chitarra acustica (con qualche discreta nota di synth in sottofondo) che dura poco più di 3 minuti e che, dopo un intermezzo di effetti rumoristici, dà spazio ad una bonus/ghost track cantata in italiano, melodica e romantica, delicatamente blueseggiante. Il ritorno degli Egoband non è stato dunque lasciato al caso e non lascia adito ad appunti di sorta; la band dà prova di aver ancora qualcosa da dire e riprende le fila da dove era arrivata, 16 anni prima, per proseguire il proprio percorso musicale, dando vita ad un album ben realizzato e certamente godibile nella sua interezza. Se non fosse che comunque il mio album preferito della band rimane comunque “Earth”, si tratterebbe del loro miglior lavoro.
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