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Siamo nell’anno 2020 e gli Enid pubblicano un nuovo album di materiale inedito. Niente, di strano, apparentemente. Si tratta però di un fatto importante, perché sono passati dieci anni dal ritorno della band di Robert John Godfrey, dopo un periodo di problemi legali e la pubblicazione di un disco di inediti a segnare un nuovo inizio e anticipare un altro decennio di emozioni musicali. E non si può dire che questi dieci anni non siano stati interessanti e travagliati. Tanto per iniziare, “Journey’s end”, a dispetto del titolo, è stato l’inizio di una trilogia, iniziata bene e proseguita in maniera spettacolare con “Invicta”, a giudizio di chi scrive un capolavoro, e conclusa discretamente con “Dust”. Il tutto tra i soliti avvicendamenti nella formazione, la valorizzazione radicale delle parti vocali, vari episodi intermedi costituiti da rielaborazioni di vecchie composizioni, concerti e album live, un disco fuori trilogia, addirittura uno senza Robert John Godfrey, e la malattia dello stesso annunciata sui social network. Dopo tutto questo, era lecito chiedersi cosa aspettarsi dagli Enid nel 2020. La risposta è semplice: il ritorno al passato. Per la precisione, il richiamo totale alle origini di “In the region of the summers stars”, l’esordio forse insuperato che ha fatto divenire gli Enid una delle grandi band non abbastanza conosciute del progressive rock. “U” è in pratica un omaggio a quel disco. Godfrey e Jason Ducker (con l’aiuto del fidato Dave Storey), al momento gli unici componenti degli Enid, ne hanno recuperato i suoni e lo stile compositivo, accontentando i nostalgici e chi sognava di tuffarsi nuovamente in quel vortice di emozioni. Il risultato è convincente. Come non farsi venire i brividi ascoltando le melodie suadenti di “In the region of the winter star”? Come non lasciarsi ammaliare dalle languide melodie, dalle morbide note che scorrono via come placidi fiumi di pianura? Come non lasciarsi travolgere dagli impetuosi crescendo drammatici e dalle epiche esplosioni musicali? Queste sono le sensazioni che è possibile ascoltare in tutto il disco, anche sein realtà non è stato così semplice apprezzarle. Devo ammettere che i primi ascolti sono stati stranianti e, in qualche modo, deludenti. La prima impressione è stata quella di ascoltare qualcosa di forzatamente già sentito, come una zuppa di cliché enidiani tiepida e insipida. Sono stati necessari alcuni passaggi successivi, anche se non troppi, più immersivi e senza distrazioni per apprezzare “U”. La delusione si è sciolta come neve al sole e ho iniziato a godermi il disco in tutta la sua forza evocativa e in tutto il suo “stile Enid”, perché in fondo è così che la musica della band deve essere. Non so se “U” sarà un canto del cigno o un poco probabile inizio di un nuovo decennio di attività, ma non è importante. Per il momento, ancora una volta, va bene così.
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