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ENNEADE Withered flowers and cinnamon Vallis Lupi Productions 2022 FRA

Col termine “enneade” si indica un raggruppamento di nove elementi. Particolarmente rilevante era nella tradizione religiosa la Grande Enneade, gruppo di altrettante divinità nella mitologia egizia, venerata ad Eliopoli (a volte vi era anche una decima divinità, rendendo così molto simile lo schema alla tetraktys piragorica, ma questo è un altro discorso). Terminologia e significati profondi a parte, nonostante i soli tre album oggi all’attivo, la band di Lione è in vita dal 1996, esordendo ufficialmente solo dieci anni dopo (con due demo all’attivo) e tornando sul mercato durante il 2011. Questo nuovo lavoro – preceduto da un altro demo – si presenta con una formazione rinnovata, che pian piano lascia alle spalle il prog-metal sfruttato in passato per inserire e mettere in evidenza chiari elementi di folk progressivo in stile seventies. Certo, ci sono dei momenti in cui la timbrica “metallica” sembra stridere con i nuovi spunti sopra indicati, ma la strada intrapresa sembra piuttosto buona.
Cinque brani, per soli trentasette minuti di musica, che di per sé oggi potrebbero apparire esigui, soprattutto se si incide quello che sembra essere poi diventato un concept, anche se – a detta dei diretti interessati – l’intenzione inziale non era certo quella. I nostri, però, mostrano un’eccellente capacità di sintesi, anche quando si tratta di destabilizzare l’ascoltatore con varie trovate all’interno dello stesso brano. Un filo comunque conduttore viene trovato nella figura di Ted, il personaggio che compare in ciascuna traccia (e che farà una brutta fine…), nato fondamentalmente per far rima con parole tipo bed, head o – per l’appunto ¬– dead.
“A Foul Taste of Freedom”, fin dal titolo, nella sua parte inziale ricorda “On the Road to Freedom”, primo pezzo dell’album omonimo ad opera di Alvin Lee e Mylon LeFevre, con chitarra acustica ed elementi bucolici in evidenza (certo, manca la fluidità delle sei corde elettriche dell’originale). Lo stridore prog-metal di cui si parlava all’inizio viene subito accompagnato da un rinnovato approccio vocale “abrasivo” in stile Peter Hammill. Per alcuni tratti, si dà vita ad una specie di miscuglio tra i Van der Graaf Generator e qualcosa dei Tempest (quelli del norvegese Lief Sorbye), salvo poi lasciarsi andare alla brutale confusione metal, che dopo il sesto minuto si acquieta di colpo tra gli accordi della rinnovata chitarra acustica di George-Marc Lavarenne (che in tutto il lavoro si divide anche tra puntate alle sei corde elettriche e mellotron); è il preludio ad un nuovo attacco folk-rock, molto energico, nonostante l’andamento non sia totalmente scalmanato. Buono il lavoro del batterista Frédéric Lacousse. “Illumination” è introdotta da un gioco creato tra l’acustica ed il chapman stick del bassista Julien Fayolle. Occorre segnalare il lavoro eseguito al moog (da Lavarenne o dallo stesso Fayolle?) e poi gli assoli lirici di Christophe Goulevitch (concentrato essenzialmente sulla chitarra elettrica) che seguono il modello di Steve Hackett, per un brano che in molti hanno visto in chiaro stile Genesis, anche se l’approccio vocale di Christian Greven risulta completamente differente. “Tinkling Forks” è invece introdotto dalla marimba suonata da Lacousse, poi seguita da cesellature in pieno stile King Crimson dell’epoca “Discipline”. L’assolo di chitarra, molto meditativo, qui è lasciato alle dita esperte di Kunio Suma dei giapponesi Bi Kyo Ran, confluendo quindi nella seguente “Grand Buffet”, che ne è la folle continuazione. Gli elementi crimsoniani vengono riarrangiati come se facessero parte integrante delle follie di Dave Allen dei Gong. Lasciando perdere il testo (tendente a creare disgusto), il pezzo sembra terminare con una sorta di lamento che si ripete ritmicamente nel sottofondo. La conclusiva “Autumn” pone in risalto cupe percussioni e suoni inquietanti, evocando così i fiori che appassiscono nel nascente grigiore autunnale, come da titolo dell’album. Un andamento che si protrae per almeno due minuti, fin quando si comincia a cantare della propria nostalgia. La traccia si trascina fino all’assolo di chitarra, che ha la capacità di rialzare le vibrazioni; in una rinnovata atmosfera nello stile dei Genesis anch’essi più bucolici, le ritmiche diventano sempre più complesse. Il passaggio al prog-rock tout-court sembra ormai definitivo, sancito nel migliore dei modi dal lungo ed ispirato assolo di sax ad opera dell’altro ospite, Olivier Sola, probabilmente il momento migliore di questa nuova pubblicazione del gruppo transalpino.
Come detto, in meno di quaranta minuti la band francese compie un gran lavoro di sintesi. I riferimenti, noti e meno noti, sono tanti. I cinque musicisti denotano una certa cultura musicale, grazie alla quale riescono a muoversi con disinvoltura all’interno delle proprie composizioni. La direzione sembra imboccata ed è lecito adesso aspettarsi qualcosa di decisamente più personale. Comunque, il lavoro preso in esame scivola via abbastanza agevolmente.



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Michele Merenda

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