E’ molto facile oggigiorno parlar male di Fish, ricordando ciò che era ai tempi dei Marillion, e anche nei primi suoi due album solisti, e vedendo cosa ha invece messo insieme coi lavori successivi. Troppi (me compreso) non riescono ingenerosamente a perdonargli di essersi allontanato dalle sonorità Progressive in favore di qualcosa che non è né carne né pesce, di un rock ordinario e scialbo che gli ha fatto perdere credibilità all’interno del mondo che un tempo lo adorava (non che ai suoi ex-amici vada molto meglio, comunque), non riuscendo a fargli acquistare nuovo seguito tra chi non è condizionato dal suo passato. Forse conscio di ciò, forse semplicemente in cerca di nuovi stimoli ed opportunità, il buon Pescione ha pensato bene di chiedere la partecipazione di uno dei maggiori numi dell’attuale scena progressiva britannica, quello Steven Wilson che coi suoi Porcupine Tree si è guadagnato una bella fetta di seguaci (e apparizioni televisive) anche nel nostro paese. Le atmosfere oniriche e psichedeliche tipiche della creatura del vecchio Steven caratterizzano in effetti buona parte delle canzoni di “Sunsets on empire”. Dirò di più: nei brani in cui il nome di Wilson appare tra gli autori è sicuro trovare pane per i denti di chi attendeva Fish a una prova di riscatto, a cominciare dall’iniziale “The perception of Johnny Punter”. Le differenze dalla musica dei Porcospini tout-court sono evidenti, e in effetti la matrice musicale già presente su “Suits”, che oramai individua lo stile di Fish, è ancora avvertibile in questi 10 brani, assieme però a una maggiore ricchezza di suoni e soluzioni musicali che portano il livello di gradimento decisamente più in alto. Si tratta in fondo di buon rock, senza tanti fronzoli se non quelli accennati in precedenza, ma di certo inserito in un’opera che fa riacquistare dei punti all’autore scozzese e che ci fa in fondo passare un’ora in gradevole compagnia di una voce un tempo incantatrice ed ora un po’ più terrena. I bei tempi sono ancora lontani, ma adesso va bene anche così.