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GLASS HAMMER Culture of ascent Arion Records 2007 USA

Non è facile riprendere il cammino dopo un doppio album ambizioso e monolitico come "The Inconsolable Secret", risalente ormai a due anni or sono, eppure la band di Steve Babb e Fred Schendel appone il decimo sigillo (e questo considerando solo le uscite in studio) alla sua ormai ricca discografia lasciandosi alle spalle quel mondo epico, fatto di eroi e storie leggendarie, per portarsi su un piano umano, puntando l'accento sulla fragilità e al tempo stesso sulla forza dell'individuo, nel suo spirito di comunione e lotta con gli elementi incontrollabili della natura. Il tema portante di questo album sono le montagne e le imprese degli scalatori che, con l'aiuto delle proprie forze, sfidando le proprie possibilità, anche a rischio della propria vita, aspirano a raggiungere la vetta per godere di un momentaneo sguardo sullo spettacolo grandioso offerto dal panorama a valle. Naturalmente l'ascesa dello scalatore ha anche un significato allegorico e spirituale e, non a caso, nei testi ricorrono le immagini delle imponenti catene dell'Himalaya, che si stagliano a ridosso della regione tibetana. Tutto questo deve aver stimolato molto l'immaginazione dei due musicisti che hanno saputo tradurre in musica i propri sentimenti con grande trasporto, realizzando un album abbastanza unitario nello stile e denso di contenuti musicali. Non passa di certo inosservato il grande amore per gli Yes, che in questo disco vengono letteralmente celebrati, ora come non mai. Non mi riferisco solo alla cover di "South Side of the Sky" che apre questo nuovo album, né alla presenza di Jon Anderson in carne ed ossa (che a mio giudizio con grande intelligenza è stato reclutato per rifinire i back vocals e non come cantante solista), ma allo spirito globale dell'opera che, in ogni sua particella sonora, evoca gli scenari da favola che sono propri dell'universo artistico del gruppo inglese. E' quasi impossibile non pensare ad esempio al bellissimo paesaggio raffigurato sulla copertina di "Relayer" sulla quale campeggiano montagne impervie e sentieri rocciosi, battuti da una coppia di cavalieri che sembrano procedere con cautela, a capo chino, immersi in chissà quali pensieri. La musica, dal canto suo, è come al solito ricca negli arrangiamenti, cesellati con gusto anche grazie all'apporto del terzetto d'archi Adonia, scintillante nei suoni, dominati da tastiere rigogliose ed esaltata da un mixaggio impeccabile, oserei dire a prova di audiofilo. Ancora una volta sono fondamentali gli intrecci vocali, fatti dall'interazione di voci femminili e maschili, belli ed articolati, che si intrecciano ad una trama sonora fitta e delicata. Forse per esaltare il difficile confronto fra uomo e natura, è stato pensato l'inserimento di un nuovo chitarrista, il francese David Wallimann, che interviene ad irrobustire la musica con i suoi assoli taglienti e non privi di slanci virtuosistici. Un altro elemento di novità è rappresentato nell'introduzione, nel ruolo di cantante solista, di Carl Groves dei Salem Hill, la cui voce, limpida e precisa sulle tonalità alte, si adatta perfettamente alla musica dei Glass Hammer.

Ma entriamo nei dettagli: come abbiamo detto l'apertura è affidata ad una cover. Trovo questa scelta per diversi aspetti discutibile, anche se i nove minuti del celebre cavallo di battaglia rubato a "Fragile" non tolgono molto spazio alle idee del gruppo, le cui canzoni occupano comunque un'ora di tempo. Avrei certo preferito un pezzo di musica originale ma tutto sommato questa bellissima versione, che ha subito una trasformazione abbastanza evidente negli arrangiamenti, offre un efficace trampolino di lancio per immergersi in un album che, come abbiamo sottolineato, è un tangibile tributo agli Yes. Quel pezzo stesso, come spiegato dal gruppo, celebra le vette imponenti e ghiacciate dell'Himalaya e quindi aiuta a sviluppare in un certo senso le tematiche del concept. Bisogna poi dire che questa versione è deliziosa: bella è l'interpretazione di Susie Bogdanowicz, alla quale è stato affidato il compito di cantante solista, mentre sullo sfondo, come uno spettro, aleggia la voce tintinnante di Jon Anderson. Il sound è moderno e sfavillante ed è in linea con le produzioni dei Glass Hammer più che con quelle degli Yes. Questo aspetto, come accennato, fa sì che la traccia si incastoni in maniera unitaria col resto dei pezzi, andando a completare in maniera perfetta l'intero mosaico. Semplice, solare e di impatto è la prima traccia originale dell'album, guidata da un basso alla Squire, con riff squadrati di chitarra, belle rifiniture di Moog e rigogliosi violini alla Kansas. Fra i pezzi più suggestivi segnalo però la successiva "Life by Light", un brano sognante, fatto di suoni gentili, con tastiere che sembrano gradualmente espandersi nell'atmosfera, tagliata a sua volta da tante voci, fra cui quella di Anderson, che si fanno eco l'un l'altra. Impossibile non pensare a grandi classici come "And You And I", per dirne uno, nel contesto di composizioni così sfacciatamente celebrative, ma è impossibile non godere di un pezzo così elegante che dà quasi l'impressione di essere abbagliati dalla luce del sole riflessa da ghiacciai eterni. Abbiamo accennato ad un sound in parte indurito, sotto la spinta aggressiva della chitarra elettrica, cosa che si accompagna in parte ad un ridimensionamento del versante tastieristico (le cascate rigogliose di Moog e synth erano una delle caratteristiche di maggiore impatto dei Glass Hammer): questo aspetto è evidente in "Ember Without a Name" che si apre proprio con la chitarra compatta di David Wallimann e che offre diverse occasioni al valido axeman per dar sfoggio del proprio virtuosismo. Tutto questo non reca troppo danno all'impianto sinfonico generale del pezzo, che abbonda come al solito di archi, cori e belle rifiniture tastieristiche. Strana l'idea di collocare nella seconda metà dell'album proprio i pezzi più lunghi, ma forse questa scelta dà quasi l'impressione delle difficoltà legate all'impresa della scalata e della fatica che si prova man mano che ci si avventura verso altitudini maggiori. Dopo gli oltre Sedici minuti di "Ember Whitout Name" ecco quindi che dobbiamo confrontarci con i diciannove di "Into Thin Air"… e assieme all'aria anche i suoni si fanno più rarefatti, con arrangiamenti più essenziali, tastiere meno compatte ed un mood guidato soprattutto dagli archi onnipresenti. Si tratta di un pezzo lungo e vario, ma che comunque procede con lentezza fino al culmine della scalata che si conclude con la canzone più breve dell'album, "Rest", che ci permette infine di godere della pienezza e della grandiosità del paesaggio, di riposare e di tirare le somme su questo album. Album celebrativo, album sinfonico, album ben fatto, che verrà sicuramente apprezzato dagli estimatori del gruppo, album discutibile per alcuni aspetti ma sicuramente godibile per quelli che nel prog cercano suoni melodici e sinfonici… e ovviamente anche per i fan degli Yes!

 

Jessica Attene

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