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GLASS HAMMER Three cheers from the broken hearted Arion 2009 USA

Questo disco è stato una specie di doccia fredda: i primi minuti di ascolto li ho passati a chiedermi se questi fossero davvero i Glass Hammer o se si trattasse di qualche strano progetto collaterale. La copertina non ha nulla di poetico e ritrae praticamente quello che rimane della band, un semplice trio, che non si avvale di collaborazioni, che non scrive nuove storie fantasy, che non ha più le ali per volare. I Glass Hammer allo stato attuale sono Steve Babb (basso, tastiere, voce), Fred Schendel (batteria, tastiere, chitarra, voce) e Susie Bogdanowicz (voce solista), ai quali si aggiunge in qualche traccia una seconda chitarra, quella di Josh Bates. Tutto qui. Il sound è divenuto più essenziale e granitico e le tastiere si limitano a qualche assolo e a un ordinario lavoro di tappezzeria… il Moog, che nel recente passato del gruppo era protagonista di sontuosi ricami, è un pallido spettro. La traccia di apertura, “Come on, Come on”, ci fa fare subito i conti con la realtà: si tratta di una canzone che sembra fatta per stare al centro di un album, come ponte fra due pezzi più complessi, quando l’ascoltatore è già entrato nella giusta atmosfera, e invece è buttata subito in partenza, forse perché mancano proprio composizioni di un certo spessore da legare… non saprei. Da notare poi le sequenze tastieristiche nella seconda parte che sembrano quasi fare il verso a “Kashmir” dei Led Zeppelin. A dire il vero non so neanche se si possa parlare propriamente di Progressive Rock: se questo fosse stato l’esordio di una band sconosciuta forse non lo avrei neanche preso in considerazione per una recensione. Non è certo qualche assolo di tastiera fatto bene che rende un disco Prog! Non so neanche, a dire il vero, se questo album possa avere una nicchia di ascoltatori: bene o male i Glass Hammer si erano costruiti una propria solida reputazione e una schiera di fan fedeli. L’album si compone di ben undici tracce, tutte di durata medio-bassa, con un vertice che è rappresentato dalla penultima “Hyperbole” che raggiunge i 7 minuti. Il sound è, come accennato, molto spoglio e il livello compositivo è decisamente basso. Ascoltare questo album è come andare a vivere in un prefabbricato dopo aver abitato nel castello di Neuschwanstein. I pezzi sono modulari, schematici con una prevalenza di riff chitarristici potenti che si alternano a ballad un po’ banalotte. Io credo che non ci sia più niente da dire: se i Glass Hammer volevano stupirmi, ci sono riusciti e non posso che rimanere così, con un palmo di naso e a bocca aperta, sperando che questo album sia stato un imbarazzante orrore a cui rimediare.



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Jessica Attene

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