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Alfieri della seconda ondata (se così possiamo chiamarla) del new-prog britannico, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, quando i primi Marillion avevano ormai già fatto il loro corso, tornano a far parlare di sé i Galahad con un nuovo album in studio, a distanza di cinque anni dal precedente “Empire never last”. In questo lustro il gruppo, che non si era mai riuscito a staccare da certi cliché e che pur sfornando lavori interessanti è sempre rimasto un po’ nell’ombra dei colleghi più blasonati, sembra essersi preparato per incamminarsi verso una strada un po’ diversa, anche se non si allontana troppo dai passi fatti in passato. Complice con ogni probabilità anche la direzione di Karl Groom dei Threshold in cabina di regia, che ha registrato e mixato l’album, si coglie immediatamente un attentissimo lavoro in fase di produzione. L’inizio della title-track è orchestrale e teatrale e infonde solennità e drammaticità e solo dopo i tre minuti comincia l’ossessivo e ripetuto refrain, che, complice anche l’entrata della potente sezione ritmica, riporta la band ai fasti del passato, con quel new-prog che sa essere diretto e robusto. Si avverte però una certa maturità che solo a tratti si era sentita negli episodi discografici precedenti: gli arrangiamenti sono ben studiati, le dinamiche della composizione portano a interessanti sviluppi, con buona alternanza di momenti energici e pacati, numerose variazioni di tempo e di atmosfera e Stuart Nicholson è pronto a confermarsi vocalist capace e affidabile. Questi primi sette minuti sono convincenti, ma anche il seguito dell’album offre indicazioni positive. Pur mantenendo certi stilemi legati al loro passato, i Galahad sembrano più sicuri di quello che fanno, presentando, in composizioni agili e prive di orpelli che potrebbero prolungarle oltre misura (non si va oltre gli otto minuti e mezzo della traccia conclusiva). Il rock chitarristico e tecnologico di “Reach for the Sun” e “Suspended animation” è vigoroso al punto giusto, brani più ad ampio respiro come “Singularity”, “Bitter and twisted”, o l’ottima “Seize the day” mostrano un songwriting ispirato, alternando spunti hard e sfondi d’atmosfera quasi ambient, certo sinfonismo maestoso tipico del new-prog e una modernità e pulizia di suoni invidiabile. “Beyond the barbed wire”, tra delicate melodie e spunti più robusti, rimanda invece un po’ agli IQ, anche, se soprattutto nei momenti pacati, si avverte un po’ di elettronica non invadente. Le caratteristiche che fanno maggiormente da trait d’union tra i vari brani sono rappresentate però, oltre la voce calorosa e potente di Nicholson, dalle belle orchestrazioni tastieristiche, che con arie altisonanti e spunti pianistici donano quel tocco classicheggiante ed una certa eleganza. A completare l’album c’è una bonus track rappresentata da una nuova versione di “Sleepers”, un classico della loro discografia, che in quattordici minuti riesce a proiettare verso il futuro il new-prog dei Galahad di ieri. Forse l’album può risultare un po’ troppo studiato a tavolino e chi non ama molto le sonorità tecnologiche potrà storcere il naso di fronte a certe soluzioni, ma questi Galahad più maturi sembrano aver trovato una propria dimensione giungendo alla loro personale visione sonora del new-prog. Pare che la band abbia intenzione di pubblicare un nuovo album già entro la fine di quest’anno, a dimostrazione di un momento di buona ispirazione che potrebbe rilanciare in maniera decisa le sue quotazioni. Staremo a vedere.
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