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GALAHAD Seas of change Oskar/Avalon Records 2018 UK

Sono passati 27 anni da quando i Galahad, giovane promessa del Prog inglese, fecero la loro prima sortita al di fuori dell’isola natia in quel di Parigi, il sottoscritto presente. Già la band si era guadagnata una buona reputazione nell’allora asfittico sottobosco Prog britannico e l’entusiasmo che li portava a suonare tanto nel più infimo pub quanto nella ville lumière era sicuramente contagioso e foriero di un futuro magari non proprio roseo (nessuno pensava che il Prog portasse fama e soldi) ma di certo intrigante. Oggi ritroviamo quei musicisti, ovviamente con qualche volto nuovo rispetto alla band di allora, con un po’ di pancetta e diversi capelli in meno e di certo minori speranze per il futuro (musicale, quanto meno), ma per certi versi con non meno entusiasmo e sfrontatezza di allora. Solo così possiamo spiegare la scelta di pubblicare due album a meno di un anno di distanza; se il primo dei due, “Quiet Storms”, aveva caratteristiche decisamente interlocutorie, questo “Seas of Change” ha connotati decisamente diversi, a partire dal fatto di essere costituito da una sola traccia di quasi 43 minuti (cui si aggiungono un paio di bonus tracks).
Incassata a malincuore la defezione del chitarrista e fondatore del gruppo Roy Keyworth e il ritorno di Lee Abraham, stavolta, appunto, nel ruolo di chitarrista, Stu Nicholson e soci danno vita ad un album vivo e brillante, di Prog moderno, a malapena rassomigliante a quello degli inizi della band ma che per contro non ne tradisce lo spirito e l’ispirazione, influenzato nei testi e nelle ambientazioni dalle atmosfere di cambiamento e di incertezza che pervadono l’Inghilterra e tutto il Regno Unito in questi ultimi anni, con le incertezze della Brexit ovviamente in primo piano.
“Seas of Change” appare come una saga musicale, una sorta di piccola opera rock divisa in 12 atti, con temi ricorrenti e utilizzati, in diverse forme, più volte, con la voce di Stu che non tradisce l’avanzata dell’età ma che non è onnipresente ma, anzi, si propone in modo discreto lasciando maggior spazio alla musica, soprattutto alle atmosfere create dalle tastiere di Dean Baker, ora tradizionali, ora più effettistiche ed elettroniche, quando non addirittura impegnate a creare effetti orchestrali. L’apporto di Abraham al posto di Keyworth dona anch’essa un’impronta più moderna alle sonorità, nel bene o nel male che la si voglia vedere. Ancora una volta l’ospite Sarah Bolter, al flauto, clarinetto e sax, a tratti e discretamente si fa sentire per arricchire e diversificare la miscela sonora della band (delizioso il suo duetto flauto / clavicembalo nei primi minuti).
Il ritorno dei Galahad con questo nuovo vero album non può che essere accolto positivamente, donandoci la possibilità di gustarci un’opera musicalmente attraente e coinvolgente che, lungi dall’essere un serpentone camaleontico che dipana le sue spire in maniera asfissiante, si snoda con ciclicità ed evoluzioni controllate e ben realizzate. Per essere apprezzato appieno, come succede per i migliori album, sono necessari più ascolti e, sebbene sia apprezzabile anche di primo acchito, il ripetersi dell’esperienza ci porta ragionevolmente a chiederci se si tratti del miglior lavoro nella trentennale attività della band del Dorset.



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Alberto Nucci

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