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THE GÖDEL CODEX |
Oak |
Off |
2019 |
BEL |
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The Gödel Codex è il nuovo progetto del chitarrista belga Michel Delville, forse più conosciuto per i suoi album con Wrong Object, Doubt, e Machine Mass, alcuni dei quali già recensiti sulle pagini di Arlequins. Il 2019 deve essere stato particolarmente impegnativo per lui, data la sua presenza come protagonista in ben due album dei Wrong Object, “Into the Herd”, e “Zappa Jawaka”, in “Reflection in a Moebius Ring Mirror” con gli Eclectic Maybe Band, e infine in questo primo album “Oak” a nome appunto di The Gödel Codex. Qui, con l’inseparabile pianista-tastierista Antoine Guenet, l’intraprendenza e la voglia di esplorare per poi unire mondi diversi, va però ben oltre il jazz rock ricercato e contaminato proposto con i Wrong Object, o all’improvvisazione tipicamente jazz dei Machine Mass. Con l’aiuto del batterista-percussionista Etienne Plumer, dell’artista in musica visiva Christophe Bailleau, ciò che in questo “Oak” prende forma è difatti un lavoro che si discosta notevolmente dai progetti precedenti. Un opera che, come base, è composta da semplici canzoni sapientemente immerse nel mondo dell’elettronica e del minimalismo e che, nella forma e nello stile, si collegano a quell’avant-pop intriso di psichedelia e dadaismo tipico della scuola di Canterbury. L’amore per Robert Wyatt di Delville, che lo aveva già tributato esplicitamente con l’ensemble Comicoperando suonando insieme ai nomi illustri di Dagmar Krause, Annie Whitehead, Karen Mantler, John Edwards, e Chris Cutler, è qui inequivocabile. E così l’album scorre via senza che ci sia una precisa spiegazione per descrivere le immagini e le sensazioni che man mano fluiscono attraverso l’ascoltatore. Si parte con “Oak - Overture”, un brevissimo crescendo interamente strumentale composto da Etienne Plumer, che ci introduce alla malinconica “The Needle's Eye”, il cui cantato non può che evocare il già citato Robert Wyatt, e che si evolve con vocalizzi vari per poi concludersi con una raffinatissima ed avvincente fuga di synth. Arriva poi “Granules”, brano più lungo dell’album intriso di effetti elettronici e dall’atmosfera dark inquietante, in cui il cantato non è meno rassicurante. Ad interrompere e allentare almeno in parte la tensione, ci pensano i due brani successivi. Il primo, “One Last Sound”, con il suo minimalismo pianistico seguito inizialmente da un cantato dolce e nostalgico, che quasi inaspettatamente, si interrompe lasciando spazio ad un tema più rock con chitarra lisergica che sfocia in effetti e loop elettronici vari, per poi riapparire con la stessa malinconia sul finale. Il secondo, “Matisse”, brano strumentale lisergico e minimalista dominato dagli effetti elettronici, in cui sembra di fluttuare nel vuoto. E’ poi la volta di “Stand or Fall”, “Bells” e “Can It Be” che, ancora più che in “The Needle's Eye”, sia per il cantato che per l’evoluzione dei brani, non possono che richiamare alla mente lo stile di Robert Wyatt , con menzione particolare per Stand or Falls, in cui i tocchi di piano jazz di Antoine Guenet si distinguono per spettacolarità e delicatezza. Chiudono l’album i due brani “Oak - Live Reprise” e “Lux4”. Il primo non è altro che la ripresa del tema iniziale, impreziosito dall’introduzione del piano e potenziato dalla solita chitarra lisergica ed dagli effetti elettronici. Il secondo è un brano composto da Christophe Bailleau, che con le sue ripetizioni, voci e loop elettronici, non può che farci pensare alla musica cosmica tedesca di fine anni ’60 / anni ’70. Ecco, che altro aggiungere per concludere? “Oak” forse non è proprio un disco facile e di immediata fruizione. L’impronta lasciata dalla musica elettronica è molto forte, e nel complesso prevale in qualche modo su tutto il resto. La vera essenza di questo lavoro va quindi ricercata con pazienza nei particolari. Oltre che nelle più semplici parti cantate e melodiche, nei suoni, nella scelta dei timbri, negli effetti usati che tutti insieme contribuiscono a creare quelle atmosfere cupe e malinconiche che si alternano a quelle più eteree e cosmiche, dall’inizio alla fine dell’album. Personalmente, lo ritengo oltre che suonato bene, affascinante e ben riuscito. Consigliato.
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David Aldo Masciavè
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