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KAPREKAR’S CONSTANT Depth of field Talking Elephant Records 2019 UK

L’esordio di questa band inglese, intitolato “Fate outsmarks desire”, mi aveva sorpreso non solo per l’indubbia qualità della proposta e per la presenza dell’ex VDGG David Jackson, ma soprattutto, e purtroppo, per essere passata sotto silenzio o quasi tra gli appassionati italiani. Ora i Kaprekar’s Constant ci riprovano con “Depth of field” con sempre alla guida del progetto i polistrumentisti Al Nicholson (chitarre, piano, tastiere e mandolino) e Nick Jefferson (basso, chitarre, tastiere e …parlato). La formazione è completata da Mike Westergaard (piano, tastiere, chitarra, cori), David Jackson (sax, flauti e whistles), Bill Jefferson (voce e cori), Mark Walker (batteria) e Dorie Jackson (voce e cori). Piccolo cameo, in un brano, per Ian Anderson.
L’album si sviluppa lungo sette brani per sessantasette minuti di durata. Il sound di “Depth of field” si mantiene fedele a quello dell’esordio: un misto di folk e rock molto british che lo avvicina a band quali i Jethro Tull ed i Big Big Train. La voce di Dorie li accomuna pure ai Curved Air o ai Fairport Convention ad esempio. Anche alcune delle tematiche affrontate nelle liriche si riallacciano alla “passione” dei Big Big Train per la storia britannica. E’ il caso di “Rosherville” (part 1 e 2), il cui “garden” era un luogo di svago, nel XIX secolo, per i londinesi che lo raggiungevano con facilità navigando lungo il Tamigi. Oppure “Holywell street”, una strada centrale di Londra distrutta ai primi del ‘900 o ancora “Ghost planes” incentrata sul bombardamento della capitale inglese durante il secondo conflitto mondiale. Nella suite “White star’s sunrise” è invece narrata la vicenda delle tre navi gemelle, la “Olympic”, il “Britannic” ed il “Titanic”, due delle quali affondarono in tragiche circostanze.
In un album davvero convincente si staglia su tutte proprio la suite appena citata. L’alternarsi delle due voci soliste di Bill Jefferson e Dorie Jackson, le parti corali, l’utilizzo del flauto e del mandolino generano un’atmosfera pastorale, senza tempo e molto britannica. Non mancano gli spunti “elettrici” e neppure il sax di Jackson padre, ma predominano la strumentazione acustica e le ariose melodie, sempre al centro della scena e dell’attenzione della band grazie al prefetto interplay dei due vocalist. Brano eccellente. Non sono da meno le due sezioni separate di “Rosherville”. La prima parte è posta ad inizio lavoro e si apre con una chitarra gilmouriana e synth in sottofondo. Il sax di Jackson incomincia ad “intromettersi” e la voce, soffice, di Jefferson aumenta il pathos del brano. Ancora il flauto, la chitarra acustica e poi la voce di Dorie conferiscono un ulteriore flavour celtico-folk al pezzo. Il finale, corale vede ancora Jackson padre protagonista al sax. La seconda sezione, con la presenza della voce recitante di Ian Anderson, si muove su coordinate similari, con acustico ed elettrico in un’alternanza affascinante e con il refrain (presente in entrambe le sezioni) che va a chiudere un altro capitolo di assoluto rilievo dell’album.
Certamente non sono dei riempitivi le tracce rimanenti. La “solare” “Holywell street”, seppur in cinque minuti scarsi, riesce a conquistarci per le piacevoli melodie e per l’intesa dei due vocalist. Più malinconica, ma altrettanto affascinante, “Ghost planes” con qualche ricamo dell’elettrica di Al Nicholson e una fase centrale pirotecnica. Ad alto quoziente emotivo “The nightwatchman” con il piano in evidenza e, dopo un breve excursus strumentale, la voce vellutata di Dorie (vero e proprio valore aggiunto del progetto) a prenderci per mano delicatamente fino alla conclusione. Ecco, dunque, che i due minuti finali della title track per voce, chitarra acustica e poco altro, non possono che essere considerati l’adeguata chiusura di un cerchio… quasi perfetto. Da avere, poche storie.



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Valentino Butti

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