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LOST CROWNS |
Every night something happens |
Bad Elephant Music |
2019 |
UK |
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Ogni notte accade qualcosa e magari proprio mentre dormiamo in preda ai nostri sogni ed incubi, nel silenzio dell’universo infinito, una nuova stella si accende. Ed ecco che i Lost Crowns ci offrono il loro esordio discografico, un album nato dopo quattro lunghi anni di gestazione dalla creatività di Richard Larcombe (voce solista e chitarra) che ha riunito attorno a sé musicisti di grande esperienza che hanno in comune grandi affinità e che indirettamente gravitano in buona parte nella nebulosa dei Cardiacs. Condividono con Richard una militanza fra le fila di William D. Drake e di North Sea Radio Orchestra Nicola Baigent (clarinetto, clarinetto basso e flauto dolce) e Sharon Fortnam (voce) mentre Charlie Cawood (basso) e Josh Perl (tastiere e voce) li ritroviamo nei Knifeworld, gruppo che a sua volta, ricordiamolo per i meno esperti, vanta partecipazioni di membri di Cardiacs e North Sea Radio Orchestra. Completano la line-up Keepsie (batteria) e Rhodri Marsden dei Prescott (piano acustico ed elettrico, fagotto, sega, clavicembalo e voce). Chiamateli pure supergruppo e non vi allontanerete troppo dalla verità, e sicuramente il pesante bagaglio artistico che tutti questi bravi musicisti si portano dietro rende conto delle tante influenze che attraversano l’anima della nuova creatura, ma la chiave di lettura dell’intera opera va cercata principalmente negli Stars In Battledress, duo formato da Richard e da suo fratello James, qui ospite in un paio di tracce con la sua ghironda. Non credo di sbagliare molto se penso ai Lost Crowns come a una sorta di versione allargata e potenziata del gruppo citato poc’anzi. Sono soprattutto le linee vocali di Richard la chiave di volta del nuovo progetto, particolarissime ed ipnotizzanti, folte e prodighe di saliscendi lungo sentieri tortuosi ed atonali. Il suo timbro ricorda un po’ Richard Sinclair… e qualcosa dei Caravan senza dubbio è confluito nel minestrone, con sentori che ci rimandano anche i Gentle Giant, quelli sofisticati di “In a Glass House” e qualche sprazzo di psichedelia. Le linee vocali, onnipresenti e dotate di grande musicalità, danno vita a testi bizzarri e complessi, talvolta visionari e un tantino Zappiani, interessanti anche per la scelta dei fonemi che si intrecciano sinuosi nelle orecchie di chi ascolta. La bellezza delle sole linee vocali, e non sono esagerata ad affermarlo, sarebbe sufficiente ad appagarmi ma ovviamente la storia non finisce qui. Ma partiamo dall’inizio con “House Maid’s Kness”. L’apertura è affidata al pezzo più forte sia perché di grande impatto, sia perché affilato e diretto nei suoni che con la loro ruvidezza ci conducono con maggiore decisione verso i Cardiacs. Si tratta del brano ideale per farsi largo nella testa dell’ascoltatore, esigendone con prepotenza la partecipazione emotiva, introducendolo in un mondo dove non esiste linearità, l’azione musicale si svolge su impalcature ritmiche claudicanti e le melodie, sghembe, si attorcigliano vertiginosamente su sé stesse. Dopo un inizio così diretto e dirompente una composizione più ossuta come la successiva title track potrebbe apparire, in tutta onestà, un po' sotto tono e in effetti i picchi raggiunti subito all'inizio non verranno più eguagliati. Ma sarebbe un errore sottovalutare composizioni che presentano in ogni caso molte sfaccettature. “Sound as Colour” recupera in dinamicità con i suoi intrecci chitarristici fatti di numerose note che si avvitano in un complesso musicale fatto di tante piccole tessere che si incastrano alla perfezione. L'apporto dei fiati e degli altri strumenti è sempre garbato ed accessorio e contribuisce all'aumento dei particolari sonori senza appesantire la struttura di brani che scorrono in modo snello anche se tortuoso. “Midas X-Ray”, un brano scarno che si sviluppa con una sua ciclicità, ci fa rendere conto di quanto la chitarra sia fondamentale soprattutto in situazioni musicali che, come in questo caso, presentano una struttura più essenziale. Mi piace continuare citando rapidamente la centrale “She saved Me”, brano dalle colorazioni sfumate con graziose ed ipnotiche polifonie che scorrono su una ritmica lenta e cadenzata, la fragile “Dandy Doesen't Know” dalle tonalità acustiche, con chitarra acustica e piano ed un appeal cameristico e la briosa e grottesca “Let Loving Her Everything” in cui tutto sembra visto attraverso il riflesso di specchi deformanti. La conclusiva “The Start of My Heart”, nonostante il titolo sdolcinato, è qualcosa di spettrale ed inquietante, con suoni ululanti, ombre Vandergraffiane ed un cantato lunare, che chiude con la giusta enfasi un album complesso, misterioso, arzigogolato anche se non travolgente, che farà sicuramente parlare di sé e che vi invito a provare con le vostre orecchie.
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Jessica Attene
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