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“Door One” è l’album postumo di David Longdon, pubblicato a quasi un anno dalla sua precoce scomparsa, avvenuta nel Novembre del 2021. Il cantante aveva accumulato materiale nei suoi ultimi anni di vita e portato avanti le registrazioni dopo il completamento di “Common Ground” dei Big Big Train. La sera dell’incidente che gli risultò fatale David era appena tornato da Nottingham, da una seduta di registrazione agli studi Playpen con il coproduttore e ingegnere del suono Patrick Phillips. L’album era ormai quasi pronto e gli altri musicisti coinvolti nel progetto hanno pensato di interpretare la volontà di Longdon portando a termine il lavoro attraverso i suggerimenti e le tracce che egli stesso aveva lasciato con grande meticolosità. Il risultato è qualcosa di stilisticamente molto vicino ai Big Big Train, molto centrato sulle liriche e sulla voce del cantante, ma spogliato di tutta quella ricchezza negli arrangiamenti e del grandioso lavoro di produzione che invece caratterizza le opere del gruppo. Effettivamente il disco è molto curato e ha una sua compiutezza e questa semplicità è l’elemento che contraddistingue un album molto più intimistico e cantautoriale di quanto siamo stati abituati ad ascoltare in altri contesti. Longdon aveva evidentemente il bisogno di esprimersi in qualcosa su cui potesse avere il totale controllo e tutto questo si è tradotto in un’opera in cui affiorano liberamente tutte le sue emozioni, come in una sorta di diario personale, e che dimostra la sua forte indipendenza da altri modelli. Pochi sono i musicisti in gioco, ma tutti danno un apporto significativo: il batterista Jeremy Stacey (King Crimson, Noel Gallagher, Sheryl Crow, The Finn Brothers), il bassista Steve Vantsis (Fish), il sassofonista Theo Travis (Steven Wilson, Soft Machine, Gong), l’amico di lunga data Gary Bromham (Bjork, Sheryl Crow, George Michael) alla chitarra e vari altri ospiti fra cui lo stesso Greg Spawton dei Big Big Train alla chitarra. Il mood potrebbe essere più affine a quello di “Between Breath and a Breath”, l’album che l’artista aveva pubblicato assieme alla compianta Judy Dyble nel 2020 e paradossalmente, per le circostanze che si sono venute a creare, è come se ci trovassimo nuovamente di fronte ad un ennesimo dolce e doloroso addio, una sorta di testamento musicale che non avremmo mai voluto ricevere. Così non è possibile non emozionarsi ascoltando la voce di Longdon, soprattutto quando interpreta un testo come quello di “The Letting Go”, un brano, tetro e soffuso, dalle cadenza jazzy, che ci trasporta con una carezza nella dimensione dell’ineluttabilità di un doloroso addio. Fra i brani più strutturati c’è sicuramente “Sangdfroid”, cioè l’abilità di stare calmi di fronte a situazioni di pericolo, che potrebbe benissimo trovarsi fra i classici dei Big Big Train, con la sua garbata dimensione sinfonica, la bellissima intro orchestrale (registrata durante una session del gruppo madre negli studi Abbey Road) che si riaffaccerà più tardi con lo scorrere del brano, e per gli arrangiamenti elaborati. “There’s No Ghost Like An Old Ghost” è un’altra traccia dalle atmosfere magnetiche, con le sue contaminazioni hard blues e folk fornite dal mandolino e dall’organo Wurlitzer. Come è naturale che sia, sono molti i momenti autobiografici, come nella traccia “The Singer and The Song”, in cui Longdon descrive con grande potenza la sensazione di cantare sotto le luci del palco, totalmente immerso nella canzone. Fra i brani più emozionanti ricordo infine “Forgive but not Forget”, con le solenni parti corali e le melodie drammatiche dipinte da eleganti pennellate di Mellotron. Questo bel disco ci porta direttamente nel vissuto di David Longdon rappresentando in un certo senso l’immagine che egli ci lascia di sé, quella cioè di un grande cantante, di una persona sensibile e di un musicista di talento con indubbie doti compositive. Mi sembra per questo una tappa obbligata per tutti quelli che hanno avuto modo di apprezzarlo e un corollario perfetto alla discografia dei Big Big Train.
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