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MACROSCREAM |
Sisysphus |
autoprod. |
2011 |
ITA |
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In certe occasioni è inevitabile far ricorso ai luoghi comuni. Ed uno dei luoghi comuni che emerge più frequentemente nell’ambiente del prog è che, salvo poche ed eccellenti eccezioni, nel panorama italiano spesso i gruppi sono penalizzati da un cantante non all’altezza della situazione. Il disco d’esordio dei Macroscream, incentrato sulla rilettura di Albert Camus del mito di Sisifo, soffre purtroppo di questo difetto ed è un vero peccato, perché sembra un’occasione sprecata, visto che nel complesso si tratta di un’opera che da un punto di vista musicale riesce a raggiungere standard anche parecchio elevati. La cosa buffa è che sia per i lati positivi che per quelli negativi c’è un unico indiziato, che risponde al nome di Alessandro Patierno. E’ lui l’autore della musica ed è lui che, oltre che esibirsi al basso e alla chitarra classica si fa carico delle parti vocali (in inglese). Patierno riesce a costruire un album caratterizzato da un rock sinfonico molto vivace, capace di alternare delicatezze classicheggianti e momenti più robusti e se aggiungiamo che un ruolo di primo piano è assunto dal violino ecco che emergono facili paragoni con vari classici del calibro di PFM, Kansas e Quella Vecchia Locanda. A completare il gruppo troviamo altri abili musicisti che rispondono ai nomi di Davide Cirone (che presenta un bel parco tastiere vintage, tra Hammond, Rhodes, mellotron e moog), Tonino Politanò (chitarre), Giampaolo Saracino (violino) e Marco Pallotti (batteria). Il disco è incentrato sulla suite che gli dà il titolo e che fa da apripista, una composizione di venticinque minuti e mezzo che può essere una manna dal cielo per chi ama il sound degli artisti appena citati. Inizio con suoni d’atmosfera e rumori, poi dopo un minuto e mezzo chitarra acustica e violino delicatamente introducono il brano verso territori più dirompenti, visto che l’entrata della batteria vivacizza di molto le cose. Peccato che l’impatto vocale sia debole e non renda giustizia alla qualità musicale che resta alta, grazie a dinamiche efficaci che, pur prendendo spunto dai più classici cliché del rock sinfonico, offrono continui momenti entusiasmanti con stacchi e cambi di tempo, passaggi elettroacustici affascinanti, incroci strumentali costruiti con gusto e perizia tecnica e persino delle digressioni dal vago sapore jazzistico, in una cavalcata sonora assai coinvolgente. Gli altri quattro brani sono più brevi, ma viaggiano comunque su distanze ampie, che vanno dai sei agli otto minuti e quaranta secondi, mantenendo invariato l’andamento stilistico già ascoltato con la suite. Possiamo indicare che c’è più di qualche strizzatina d’occhio ai Gentle Giant in “Lullabyme” e “To be white”, che “The meaning of life” rispecchia l’animo più classicheggiante del gruppo, che “Foolish pawns” è la traccia in cui si avverte maggiormente l’influenza dei Kansas. Riassumendo: album strumentalmente ineccepibile, che mostra la preparazione dei musicisti; tanta bravura mostrata anche sul piano della composizione; parti vocali che non convincono affatto e che, volendo metterla sul piano dei voti per rendere ancora meglio le idee, fanno precipitare quello che poteva essere un 8 pienissimo ad uno striminzito 6,5. Dispiace essere così severi, specie verso un gruppo italiano al debutto e anche se solo verso un aspetto dell’album (discorso simile è stato fatto un paio di anni fa per i Phaedra), ma siamo certi che con un cantante di ruolo i Macroscream avrebbero tutte le carte in regola per diventare un punto di riferimento importante nel prog italiano.
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Peppe Di Spirito
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