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MAD FELLAZ |
Mad fellaz |
autoprod. |
2013 |
ITA |
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Tra gli ormai innumerevoli album di rock progressive che escono ogni anno sono davvero pochi quelli che aggiungono qualcosa di nuovo al genere: l'omonima autoproduzione dei Mad Fellaz da Vicenza non è certo tra questi pochi. Non è certo una grande premessa ma, proprio perché evita di paventare particolari ambizioni, il gruppo vicentino ci regala un album (d’esordio) onesto e in cui poche sono le novità. Tuttavia non lesina di certo in voglia di suonare e in passione verso la musica che più gli piace. Inoltre dimostrano di conoscere molto bene il vasto mondo del progressive, muovendosi agilmente in lungo, in largo e in ogni spazio all’interno di esso. Il disco è un buon compendio di 40 anni e passa di prog. Ovviamente si parte dalle radici, ovvero dai gruppi storici inglesi ed italiani degli anni '70, ma è altresì chiara l’influenza di gruppi (relativamente) più recenti: gli Opeth e i Porcupine Tree sono doverose citazioni. Il disco è interamente strumentale e fonda il suo equilibrio stabile sulle chitarre di Paolo Busatto e Emanuele Pasin e le tastiere di Enrico Brunelli. A voler spezzare questo condizione statica provvede spesso Zilio Rudy con le sue incursioni di flauto. La batteria di Marco Busatto e il basso di Carlo Passuello assecondano agilmente il sound della band. Il disco parte con la lunga suite divisa in due parti de "Il Colpevole" in cui i passaggi chitarristici alla Gilmour, alle volte un po’ manieristici, si fondono con evoluzioni tastieristiche alla Banco e passaggi più dark alla Van der Graaf. Alla fine il pezzo risulta un po’ dispersivo, lasciandoti qua e là sensazione di un sound abbastanza stereotipato. Tuttavia a tratti emergono momenti di genuina goduria progressiva. “Banda Scavejoni”, con il suo ritmo incalzante, ricorda vagamente il mood di qualche sigla di telefilm anni '70 americano. “White Widow” è invece più jazzata, con una cadenza quasi blues caratterizzata da suoni vintage che faranno la gioia di ogni amante di retro-progressive. L’album si chiude con il pezzo più bello: “La Giungla”. Un pezzo in cui riescono finalmente ad amalgamare in maniera più omogenea la loro musica ed a far trasparire maggiormente tutta la loro personalità. Nel complesso il disco si lascia ascoltare con molto piacere anche se raramente cattura la piena attenzione dell’ascoltatore. Il gruppo vicentino ama il progressive e lo esibisce chiaramente. Sa quali sono gli ingredienti richiesti degli appassionati prog più nostalgici e ne fa largo uso. Sono sicuro che è un disco che farà felice tutti coloro a cui piace rifugiarsi in sonorità amiche e conosciute.
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Francesco Inglima
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