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MACHINE MASS |
Plays Hendrix |
Moonjune Records |
2017 |
BEL/USA |
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La sigla Machine Mass è giunta già al terzo album in due anni; e dire che era nata per quello che doveva essere un semplice side-project dei belgi douBt, in cui militano il batterista statunitense Tony Bianco ed il chitarrista belga Michel Delville (anche e soprattutto nei notevoli The Wrong Object). Come detto in sede della recensione precedente, Bianco era passato in Europa dopo aver perso la moglie, incontrando così l’amico Delville per buttare giù un po’ di musica. Inizialmente i Machine Mass erano un trio, consolidato dalla presenza del sassofonista Jordi Grognard. In realtà lo è stato anche dopo, anche se la costante risulta sempre il duo Delville/Bianco, a cui si aggiunge di volta in volta un terzo musicista. La volta passata c’era ancora un sassofonista, David Liebman (due nomi su tutti: Miles Davis ed Elvis Johnes), stavolta un tastierista, Antoine Guanet, anch’egli nei The Wrong Object e nella leggendaria band di RIO belga Universe Zero. Come sta a suggerire il titolo stesso, per il suo terzo appuntamento la “Macchina” si cimenta nella personale interpretazione strumentale di Jimi Hendrix, andando così a rivisitare brani che hanno contribuito a compiere la Rivoluzione sulla chitarra elettrica e di conseguenza su tutta la musica che ne sarebbe da lì a poco conseguita. Quello odierno è un approccio molto più concreto rispetto all’immediato passato, non soffermandosi su astrazioni cerebrali riservate ad un ristretto numero di ascoltatori. Certo, la proposta continua a non essere delle più elementari e gli arrangiamenti non sempre sono diretti come gli originali, ma per fortuna non ci si trova davanti a delle de-strutturazioni compositive astruse che ricordano solo lontanamente le partiture conosciute. Una caratteristica, quest’ultima, che sembra diventare pian piano di moda negli ambienti pseudo-colti ed (a modo loro) avanguardistici. L’estrazione jazzistica è molto presente, soprattutto nelle introduzioni che poi confluiscono nel cuore delle tracce musicali. È il caso di “Purple Haze”, già coverizzata l’anno precedente sul secondo lavoro proprio dei douBt, ma che qui risulta nettamente migliore, introdotta da un pianoforte che all’inizio rende omaggio all’innovazione di Gershwin e poi apre la base per un’esecuzione infuocata. Delville suona incredibilmente come quella che potrebbe essere l’odierna reincarnazione di Hendrix, che sorge dall’alienato caos metropolitano, mentre il drumming di Bianco sembra un ottimo mix tra l’energia di Mitch Mitchell ed il virtuosismo di Billy Cobham. Trattamenti analoghi avvengono anche per “Fire” (risultando ad un certo momento un po’ troppo caotica, però. Interessante l’inedito approccio tastieristico) e “Voodoo Chile”, preceduta da degli effetti e pervasa da uno spesso alone “futurista” (ancora una volta, grande lavoro alla batteria). Ci sarebbe però da dire che il vero titolo del pezzo in questione è “Voodoo Child (Slight Return)”, ancora oggi confuso con quello che in realtà appartiene a un lungo brano blues sempre del mancino di Seattle. L’errore risale a quando fu pubblicato un singolo di tre tracce e si mise il titolo errato. Da allora si continua a sbagliare, evidentemente anche nelle riproposizioni attuali. Tornando all’album in questione, è innegabile che vi sia una fortissima componente psichedelica, in cui l’atmosfera è densa, allucinata come da definizione e spesso pesante, perfettamente rappresentata dall’ottima copertina di Elisabeth Waltregny e dal graphic design di Aleksander Popovic. Non a caso, il lavoro viene aperto da “Third Stone From The Sun”, autentico manifesto della psichedelia Hendrixiana, che può essere ritrovata anche in “Spanish Castle Magic” e nei quasi undici minuti di “You Got Me Floatin”, che a un certo punto diventa decisamente eccessiva. Detto che “Burning Of the Midnight Lamp” – tanto per essere smentiti – è praticamente irriconoscibile ma mette in luce un buon Guenet, occorre poi prestare attenzione a “Little Wing” e alla conclusiva “The Wing Cries Mary”. Entrambe contraddistinte da voci campionate che ne scandiscono bene l’andamento, si differenziano tra loro per l’approccio interpretativo diametralmente opposto: la prima è composta principalmente da riverberi che prendono forma e la si va riconoscendo man mano che si sviluppa, mentre la seconda è decisamente simile all’originale e si distingue come l’esecuzione più solare, con un bel pianoforte. Tutti i pezzi sono stati suonati live in studio, con qualche overdub aggiunto in un secondo momento. Le tracce sono state qui commentate in ordine sparso, ma quanto riportato in copertina rispecchia la scaletta di esecuzione originaria. Un prodotto dal contenuto come sempre coraggioso, ma stavolta più semplice da seguire e da apprezzare. Sicuramente da sentire, nonostante creerà per diversi motivi opinioni contrastanti. Anzi, forse è da sentire proprio per questo. La tecnica, lo si sarà capito, è ancora una volta ad altissimi livelli.
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Michele Merenda
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