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RHYS MARSH October after all Karisma Records 2019 NOR

Tre quarti d’ora di classico rock sinfonico, alternato a suoni soffusi, atmosfere malinconiche e melodie ammiccanti. E’ quanto possiamo ascoltare con il terzo album solista di Rhys Marsh, cantante, polistrumentista e compositore di origini londinesi, ma già da tempo trapiantato a Trondheim, in Norvegia. “October after all” si apre con “River”, un brano tirato di quasi quattro minuti, diretto, ma costruito molto bene tra intarsi strumentali di buona fattura e melodie orecchiabili. Quasi tutte le tracce del disco hanno una durata abbastanza contenuta, ma mostrano una certa ricercatezza. Prendiamo “Long way back”, che sembra trasportare il prog classico degli Yes in terra scandinava, con una stravagante orecchiabilità e gli innesti di un sax che ha in vista i Pink Floyd; o “Golden lullabies”, elegiaca con i suoi ritmi compassati, le aperture elettroniche, l’abbinamento tra voce maschile e femminile, i nuovi inserti fiatistici e sempre con venature nordiche in evidenza. Meno di un quarto d’ora e ci ritroviamo nel pieno di un album autunnale, intenso, dai contorni onirici e che colpisce non certo per le acrobazie strumentali, ma per la capacità di Marsh di avvolgere l’ascoltatore in un abbraccio sonoro rassicurante. E se “Ride the new wave” riporta alla mente i primi Porcupine Tree, ecco che “The butterflies” è una malinconica ballad dai toni acustici che fa da apripista alla spinta verso il rock sinfonico di “Let it be known!”. Molto bella “One hundred days”, che rievoca il mood un po’ uggioso di certi White Willow e che prelude la più allegra “The Summer days”, forse il momento più spensierato del cd con un pop rock stravagante, ma in realtà poco interessante. Sonorità notturne e bizzarre, vagamente jazz, per “22”, tra echi wilsoniani e atmosfere visionarie adatte ad un film di David Lynch, mentre in chiusura troviamo il momento clou rappresentato da “(It Will be) October after all”. Con i suoi sette minuti è la composizione più lunga dell’album e riporta il discorso sonoro su territori cari a Pink Floyd e Porcupine Tree, con qualche tocco classicheggiante. Marsh è protagonista assoluto soprattutto con il suo ampio parco tastiere ed è capace di abbinare timbri moderni e sonorità calde e passatiste di mellotron e minimoog. In alcuni pezzi sceglie di fare tutto da solo, in altri è coadiuvato da musicisti o da altri cantanti, tra i quali spicca il nome di Tim Bowness. Lavoro sicuramente valido, ma adatto più che altro a chi non è alla ricerca di avventura e originalità e preferisce immergersi nell’immediatezza di un impianto melodico accattivante, che non fa fatica ad essere assimilato e che ha il suo punto di forza nelle atmosfere raffinate.



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Peppe Di Spirito

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