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THE OPIUM CARTEL Night blooms Termo Records 2009 NOR

Se vi dicessi che è appena uscito un album con Jacob Holm-Lupo dei White Willow alla chitarra, basso e Mellotron, Mattias Olsson (ex Änglagård) alla batteria, percussioni, Mellotron, Organo Optigan, Orchestron e celesta e Mr. Wobbler Lars Fredrik Frøislie con il suo arsenale di tastiere comprendente Mellotron, Arp Solina, Clavinet, Fender Rhodes e quant'altro a sua disposizione di vintage… se poi vi mostrassi la copertina, bella elegante, così Seventies… cosa vi aspettereste? Un album di prog sinfonico con massicce dosi di Mellotron (visto che appare per ben tre volte nella lista degli strumenti), tonnellate di tastiere e magari con un accattivante retrogusto nordico. Il gioco è fatto: l'acquisto si imporrebbe subito senza neanche pre-ascoltare il CD. Proprio come il bimbo che si aspetta di trovare in un bel pacco infiocchettato il regalo che da tanto sognava ed attendeva e che invece scopre all'interno dell'imballaggio, che si è affrettato a scartare pieno di speranze, che c'è tutt'altro, così sono rimasta, con un palmo di naso, mentre scorrevano le tracce di questo album.
Questo CD non contiene quello che ci si poteva immaginare e da qui nasce la mia delusione iniziale. Con le tastiere vintage puoi certamente suonare prog sinfonico e questa sarebbe stata la soluzione più prevedibile, fare uscire invece un album pop, anche se elegante e ben fatto, non era proprio la soluzione più scontata. Questo è un album dall'anima pop, lo ripeto, in cui vengono convogliate, con molta timidezza e parsimonia, sonorità vintage analogiche provenienti dal passato. Il Mellotron c'è ma è un soffio leggero che aleggia sullo sfondo di tracce che fanno leva soprattutto sulle delicate sensazioni vocali del cantato. Le tastiere ci sono ma sono un delicato accento che impreziosisce tracce dai suoni lievi, quasi trasparenti. Non vi è complessità ritmica, non vi sono chiaroscuri, non vi sono orchestrazioni, non vi è neanche quel cupo sentore nordico che ci si potrebbe aspettare ma siamo a livelli molto più fruibili che si basano prevalentemente su una dimensione intimistica ed acustica, che evocano sentimenti neutri o vagamente romantici. Le voci sono affidate a più interpreti che si alternano nelle varie tracce. Rhys Marsh interviene in tre pezzi su nove in totale, che sono anche quelli più elettrificati, fra cui troviamo la traccia di apertura, "Heavenman", un pezzo che richiama i Porcupine Tree più diluiti, con un Mellotron utilizzato solo per qualche ritocco e qualche spennellatura, arrangiato in maniera deliziosa, se si riesce a fermare l'attenzione ai particolari più minuti, ma di consistenza assai lieve. Chitarra acustica, archi ed un tocco leggero di tastiere sono gli strumenti principali per pezzi che a volte si avvicinano ai Coldplay più che ai classici modelli del Prog sinfonico. Fra le tracce più robuste e che rappresenta secondo me uno degli episodi più significativi, troviamo sicuramente "Beach House", che può richiamare il repertorio degli ultimi White Willow, cantata sempre da Rhys Marsh.
Le altre voci soliste presenti in questo progetto sono quelle di Rachel Haden che canta in 3 tracce, fra cui "By This River" (cover di un brano di Brian Eno tratto dall'album "Before and After Science"), di Sylvia Skjellestad (già nei White Willow) che si esibisce in due brani, ed infine quella di Stephen Bennet che si esibisce in "Skynnidip", in coppia con Sylvia. Da segnalare poi una serie di altri artisti che comprendono Ketil Einarsen dei Jaga Jazzist al flauto, Sigrun Eng (che ha già collaborato con Tirill ed i White Willow) al violoncello ed Erik Johannesen al trombone. Insomma, non mancano i bravi musicisti in questo album, il problema è che si sentono davvero troppo poco. Alcune tracce sono deliziose, delicate, con belle commistioni fra sonorità moderne e vagamente folk, come ad esempio la traccia di chiusura, "The Last Rose Of Summer" (canzone tra l'altro già proposta su "Sacrament" dei White Willow"), elegante nella sua semplicità, ma bisogna comunque dire che non tutte le canzoni sono riuscite, come ad esempio "Better Days Ahead", un po' troppo Coldplay e forse anche un po' troppo U2. Un intero album fatto di pezzi soffusi, dalle linee melodiche appena abbozzate, rischia inoltre di diventare qualcosa di davvero noioso ed inconsistente alla lunga. Capisco forse il tentativo di scrollarsi di dosso l'eredità del gruppo madre, l'esigenza di voltare pagina, di dimostrare la propria maturità ed indipendenza artistica, ma bisognerebbe comunque arrivare a tutte queste conquiste mettendo un po' di carne al fuoco. Idee, mezzi, capacità e voglia di fare non mancano e lo dimostra la grande professionalità con cui questo album è stato realizzato, staremo quindi a vedere se Jacob-Holm-Lupo ricomincerà prima o poi ad ululare davvero.

 

Jessica Attene

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