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MAJOR PARKINSON |
Valesa - Chapter I: Velvet prison |
Apollon Records |
2022 |
NOR |
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Diciassette tracce, un’ora di musica e, come intuibile, una durata media dei brani molto breve per quelle che sono le abitudini degli ascoltatori di progressive rock. Se i Major Parkinson avevano già mostrato un’attitudine verso un lato melodico con i loro precedenti lavori, con il nuovo “Valesa – Chapter I: Velvet prison” mettono ancora più in evidenza una vena pop-rock moderna. I synth, il piano e i suoni elettronici sono alla base di una proposta che ha il pregio di essere al passo dei tempi, ma che in termini di inventiva, tecnica e personalità non offre, in verità, tantissimo. Una bella fuga classicheggiante che evoca il buon Tony Banks di annata (“Ride in the whirlwind”), le atmosfere tra il cinematico e il gospel-rock di “Jonah”, gli spunti beatlesiani di “Velvet Moon” e la stravaganza carica di teatralità e di elettronica di “Irina Maragareta” sono belle intuizioni, ma si perdono in un marasma sonoro che dà l’impressione che si sia pensato molto (troppo) alla forma e poco alla sostanza. La realtà è che per lo più siamo di fronte ad un disco che porta il synth-pop degli anni ’80 ai giorni nostri, svincolandoli da quella spensieratezza tipica dell’epoca e vestendoli di velleità più ricercate, almeno a livello di concept, legato alle vicende politiche sempre del periodo di cui stiamo parlando. Non è un caso che durante l’ascolto ci sono momenti che possono far venire in mente anche certi Queen e Cindy Lauper (in “The room” sembra quasi che certe melodie siano prese pari pari da “Time after time”). Poi i Major Parkinson possono anche strizzare l’occhio un po’ ai Cardiacs e un po’ ai gruppi di casa alla Kscope, o richiamare Bruce Springsteen, o arrivare ad un post-punk ossessivo e disturbante, o, ancora, spingersi verso effetti elettronici che ricordano i videogiochi in voga negli eightes. Ed ecco che torna in mente quella parola spesso utilizzata per certi artisti odierni in ambito prog, che tutto dice e nulla dice: “eclectic”. Sì, possiamo anche affermare che la band norvegese propone un “eclectic prog” e che ha tutte le intenzioni di discostarsi da qualsiasi “ramo” classico del progressive rock, ma, pur riuscendo a mostrare una certa personalità, risulta per lo più molto confusionaria, muovendosi in un limbo non ben definito e che solo a tratti cattura veramente l’attenzione e mostra qualche colpo di classe. Il tiro che viene cercato non viene trovato e non bastano le tinte fosche e il senso claustrofobico di costante tensione che si avverte nel sound a salvare le cose. I Major Parkinson finiscono col sembrare presuntuosi nei loro sforzi di trovare una nuova via e di fare un salto di qualità, che però non riesce. Se il “nuovo” prog degli anni 2000 deve spingersi in queste direzioni non è allora molto meglio andare alla ricerca delle tantissime gemme nascoste che una cinquantina di anni fa venivano pubblicate in ogni parte del mondo?
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Peppe Di Spirito
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