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PHLOX |
Talu |
MKDK Records |
2010 |
EST |
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Dopo averci colpito ed entusiasmato con un album granitico come “Rebimine + Voltimine” (uscito nel 2007) i Phlox si liberano dalla dura corteccia di un sound grezzo e travolgente e, come una farfalla che taglia via i filamenti che la tengono costretta nel bozzolo, sono pronti a mostrarci il frutto della loro spettacolare crescita musicale. Alla base di questo nuovo album, il quarto della loro discografia, c’è il lavoro di musicisti brillanti e preparati, abituati a suonare in più contesti e per i quali il nuovo album in studio è una summa delle proprie idee e capacità artistiche. Il disco in studio nasce in sostanza come una conseguenza del lavoro maturato in mesi di prove ed esperienze e diviene quasi un’esigenza naturale dell’artista e non qualcosa di progettato a priori o la meta ultima verso cui tendere con tutte le proprie forze. Ecco che i Phlox ci mostrano quindi ciò che sono ora in questo momento della loro vita musicale: una band matura e raffinata, tecnicamente perfetta che ha levigato moltissimo il proprio sound, pur non rinunciando mai ad uno stile complesso ed avventuroso. Il sound fa ora meno leva sui riff ed in particolare la chitarra di Kristo Roots si dedica ad un lavoro di cesello senza mai innalzare muraglie di suoni, facendo leva soprattutto sulle atmosfere e sui singoli particolari, come nella centrale “Loomaed” in cui sequenze Frippiane si mescolano ad arie delicate e misteriose realizzate con la complicità di un flauto sognante e fragranze elettroniche ipnotiche. Anche quando i suoni diventano più aspri e distorti si cerca sempre di raggiungere un equilibrio attraverso accostamenti strumentali eleganti. Gli arrangiamenti appaiono più particolareggiati che in passato, grazie anche alla partecipazione di ospiti chiave, come Vambola Krigul al vibrafono, Maarja Nuut al violino e Ramo Teder al flauto. La sezione ritmica è versatile e dinamica, instancabile nell’elaborazione di trame percussive ricercate, movimentate e assai precise. Ma il ruolo centrale lo giocano sicuramente il Fender Rhodes di Pearu Helenurm ed il sax (alto e soprano) di Kalle Klein, autori di meraviglie solistiche e capaci di splendide interazioni. L’ago della bilancia pende più decisamente a favore del jazz-rock, anche se contaminazioni psichedeliche, intarsi sinfonici raffinati e tenui visioni elettroniche vengono diffusamente disseminai, con sapiente parsimonia, a correggere soluzioni troppo decise o monocromatiche. Globalmente l’album si sviluppa in un crescendo continuo di emozioni, partendo da una scorrevolissima “Võib-olla dresiiniga”, dal sound rotondo e corposo, che scivola agilmente come un fresco vino bianco, passando attraverso i grovigli del sax e del piano elettrico della veloce “Hullelu”, dagli echi Crimsoniani, e raggiungendo via via situazioni caratterizzate da vari gradi di complessità. Ogni traccia ha i suoi colori, le sue situazioni particolari, la sua personalità. Dai morbidi drappeggi Canterburyani, con preziosi richiami agli Hatfield And The North di “Ooode”, all’estasi di “Siil” che si sviluppa in un crescendo ammaliante di improvvisazioni di tastiere e chitarre che si spingono alla deriva in un turbinio di luci e fumi dal sapore psichedelico, fino all’idillio conclusivo di “Binokkel” con le sue visioni elettroniche dai colori delicati. Non so se questo sarà per me l’album dell’anno ma le possibilità sono davvero alte. Senza comunque volersi affidare alle classifiche non posso che promuovere appieno questo gruppo che dimostra ancora una volta come l’Estonia sia un paese che ha ancora tantissimo da dire in materia di Progressive Rock alle sue vette espressive più alte.
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Jessica Attene
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