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PHIDEAUX Snowtorch Bloodfish Records 2011 USA

L’anno in corso sembra essere davvero fortunato per quel che riguarda il “buon vecchio prog sinfonico”. Il mondo del Prog è così: quando gli avvoltoi pronti a screditarlo o a decretarne la fine sembrano avere la meglio, ecco pronta l’ennesima sorpresa a ravvivare gli animi degli appassionati. Che il nostro Phideaux avesse un colpo pronto ad esplodere si sapeva già. Dai tempi della sua settima fatica in studio aveva infatti preannunciato l’uscita, per la fine del 2010, di una specie di breve appendice a “Number Seven”, designata dal numero 7 e ½, ma qualcosa è evidentemente cambiato e, accantonata per il momento questa idea, ci ritroviamo fra le mani un intero album tutto nuovo. Phideaux è in evidente stato di grazia creativa e, augurandogli che questa condizione duri ancora a lungo, non possiamo nel frattempo che gioire e godere di tanta prosperità.
“Snowtorch” è un album dal disegno essenziale e, oserei dire, quasi perfetto: si tratta di un’opera unitaria che ci offre un’unica grande visione musicale, fatta di temi melodici ricorrenti, dalla stesura fluida e dai suoni eleganti e sinfonici. La sua struttura si articola in pratica in due suite, “Snowtorch (Part 1)” e “Snowtorch (Part 2)” divise da un breve intermezzo, “Helix”, ma il disegno complessivo, come appena accennato, è simmetrico e ben proporzionato. Il punto di riferimento più prossimo è sicuramente “Number Seven” di cui viene riproposto in parte il concept sull’uomo che meschinamente vive all’ombra di sé stesso, ignorando ciò che realmente gli accade attorno. Rispetto al predecessore troviamo una line-up confermata, con l’aggiunta però di due ospiti, Stefanie Fife al violoncello e Chris Bleth al flauto e al sax soprano, strumenti che certamente mettono in risalto la dimensione orchestrale del sound. Ma quest’opera offre secondo me una sintesi maggiore e rifiniture più accurate, forse grazie anche al fatto che tutta la band ha dato il suo contributo creativo, portando quindi all’affinamento di ogni particolare. Che questa affermazione non vi porti però a pensare che sia un album da un ascolto e via: il bello è che quest’opera richiede che le siano dedicati tempo e attenzione e che l’ascoltatore ne rimanga in definitiva totalmente immerso ed assorbito per tutta la durata. Solo così se ne potrà assaporare ogni passaggio, senza perdere il filo conduttore dell’ascolto che col passare dei minuti si fa gradualmente e progressivamente più impegnativo ma al contempo, col crescere (inevitabile) del coinvolgimento emotivo, anche più interessante e piacevole. Di questo disco mi piace prima di tutto la scrittura complessa ma estremamente equilibrata, fruibile e priva inutili appesantimenti, le variazioni sui temi musicali che si ripresentano nell’arco dell’ascolto dando una confortevole sensazione di continuità, il disegno accattivante delle melodie, che si realizza anche nelle splendide parti corali, la scelta degli arrangiamenti e infine dei registri sonori, con un piano onnipresente, le raffinate aperture Mellotroniche, e la delicatezza degli elementi orchestrali che impreziosiscono i momenti tastieristici senza sostituirsi ad essi.
La struttura in suite e la lunghezza totale non eccessiva (poco meno di 45 minuti, includendo il breve pezzo fantasma collocato in chiusura) accrescono la sensazione di compattezza e la centrale “Helix” rappresenta il vertice emotivo dell’album, con un impianto vocale da brividi, grazie ad una splendida Valerie Gracious, e suoni fra il sinfonico ed il sofisticato che mi ricordano in parte i Carptree di “Man Made Machine”.
Credo che chi conosce già Phideux troverà in quest’opera il perfezionamento di alcune sue idee e quindi le mie parole non saranno sicuramente accolte con particolare sorpresa, ma chi ancora non conosce questa che è ormai diventata una importante realtà della nostra corrente musicale, farà bene a svegliarsi e a procurarsi qualcosa di questo artista magari partendo proprio da questo che inevitabilmente si colloca ai vertici delle uscite sinfoniche dell’anno e forse anche dal 2000 in qua.


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Jessica Attene

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