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PROFUSION |
RewotoweR |
Progrock Records |
2012 |
ITA |
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Dei Profusion ricordo un esordio discografico autoprodotto in maniera piuttosto casereccia, tante potenzialità inespresse e due cantanti solisti, un uomo e una donna, abbastanza bravi ma che sembravano praticamente i compagni di banco del liceo. Passa un po’ di tempo, si teme addirittura lo scioglimento, quando eccoli qui rispuntare dal nulla con un look totalmente rinnovato. Copertina scura molto seriosa ed elegante, una label internazionale, un nuovo album e una line-up parzialmente rigenerata con nuovo cantante che sembra sia stato tirato fuori da un cilindro magico. Luca Latini, un nome all’apparenza abbastanza ordinario che potrebbe essere quello del ragazzotto della porta accanto, è in realtà un cantante dalla presenza fisica davvero imponente, habitus massiccio, calvo, tatuato ma soprattutto dotato di una voce che farebbe invidia ai più blasonati gruppi Prog (e non solo) nostrani, dal timbro pulito, preciso sulle tonalità alte, piacevolmente docile (incredibile a dirsi visto il suo fisico) ma tremendamente d’impatto all’occorrenza. Un personaggio in grado di focalizzare l’attenzione sia per quel che riguarda le sue doti vocali che per l’aspetto fisico, una vera rarità. E non finisce qui ovviamente, anche musicalmente il gruppo ha fatto uno spettacolare balzo in avanti, con una sezione ritmica potente e preparata, gestita da Luca Cambi al basso e da Vladimir Sichinava alla batteria, la chitarra elettrica affilata di Thomas Laguzzi e le tastiere di Gionatan Caradonna. L’esordio era qualcosa di tarato più sul New Prog, grazie anche alla voce di Alessandro Buzzo che ricordava molto quella di Stu Nicholson dei Galahad. In un certo senso il punto di partenza di questo nuovo album potrebbe essere quello ma, per favore, non venitemi a parlare di Galahad, IQ o Pendragon. In linea generale la struttura di alcuni pezzi sembra provenire da quel retroterra, per le trame ritmiche o per alcune scelte melodiche, come dimostra ad esempio la traccia di apertura “Ghost House” (non a caso mi sembra di averla già ascoltata dal vivo con la vecchia formazione) che, con adeguate iniezioni di tastiere alla Clive Nolan, potrebbe in effetti collocarsi nel repertorio di qualche vecchia gloria inglese dell’ormai tramontata New Wave of British Progressive Rock. Ma non pensate a quel quadro, vi porterebbe del tutto fuori strada. Il sound del gruppo è in generale abbastanza pesante, ma non sempre arriva a raggiungere il Metal. Se ascoltando questo disco mi venite a parlare di Dream Theater allora vuol dire che avete nella testa solo il gruppo americano perché questa roba, seppure qua e là possa effettivamente far pensare alla band di Petrucci e soci, è di tutt’altra fattura, collocandosi ben al di fuori dai cliché di un genere ormai pluri-inflazionato. La batteria in particolare non è un attrezzo ginnico per dimostrare la propria forza o un bersaglio da picchiare a ripetizione a suon di doppio pedale: essa è suonata piuttosto in maniera essenziale ed elegante. Proprio il versante ritmico dell’album è uno degli aspetti più interessanti, con buone scelte dei tempi e delle timbriche che servono a rendere più stimolante il pezzo piuttosto che semplicemente a sostenerlo ed un riferimento potrebbe essere quello di Mark Zonder e dei suoi Fates Warning. Di quando in quando poi mi viene in mente tutta quella corrente americana anni Ottanta di metal pulito, elegante e melodico che qualcuno qui da noi designava col termine “Class Metal”… ascoltate i cori di “Treasure Island” ad esempio… Elementi anni Ottanta si possono respirare anche per alcune timbriche delle tastiere, un po’ sacrificate nel complesso, con synth che emergono in poche occasioni e che spesso lavorano sullo sfondo e ai quali viene non di rado preferito il piano che comunque ben si adatta allo stile pulito del gruppo. Un ulteriore elemento di pregio di questo album, che è poi la chiave di volta su cui è stato costruito, è la progressione, che avviene di canzone in canzone, verso altri stili musicali, con contaminazioni che variano dalla fusion, alla musica folk a quella centro-sudamericana e a quella sinfonica. Si tratta più che altro di gradevoli camei inseriti al punto giusto e non di una totale fusione, di trovate occasionali che servono a rendere particolare il pezzo. L’integrità stilistica dell’album non ne viene alterata e questo appare, nonostante i diversivi, abbastanza bilanciato, unitario e nient’affatto frammentato. La sensazione è quella di salire i gradini di una scala a chiocciola su cui si aprono, di livello in livello, stanze che affacciano ognuna verso un paesaggio diverso, dandoci la possibilità di volgere per un attimo lo sguardo altrove, pur rimanendo sempre dentro lo stesso edificio. Così nella ballad “So Close but Alone”, dominata dal pianoforte, troviamo inserti di chitarra arpeggiata simil flamenco e veloci intermezzi dal sapore caraibico che spezzano il ritmo della canzone rendendola leggera e cabarettistica. “Chuta Chani”, così come il breve intermezzo “Tkeshi” che la precede, parte da un’aria tradizionale georgiana, sul cui motivo, ripreso in maniera fedele, viene costruito un brano dall’impatto granitico. Le chitarre pesanti e sature sono stemperate dalle linee vocali suadenti e dall’inserto di un romantico violoncello suonato dall’ospite Andrea Beninati. La seconda parte di “Tower” sfoggia un bel violino suonato da Andrea Libero Cito e inserito in un contesto orchestrale quasi fiabesco. La stessa traccia diventa poi un’occasione per snocciolare una bella serie di assoli chitarristici che virano verso il rock-fusion, complice anche il supporto dei synth. Tentazioni pop emergono invece nella soft “Turned to Gold” con parti corali mozzafiato e una bella trama percussiva ancora ad opera di Andrea Beninati. Il lungo minutaggio della traccia di chiusura, “Dedalus Falling”, è dovuto in realtà al fatto che questa nasconde in coda una ghost track che ci riconduce, come una porta girevole, al punto di partenza, ripetendo alcune sequenze della traccia di apertura. Sostanzialmente i Profusion hanno saputo giocare bene le loro carte registrando un album secondo le proprie possibilità e mettendo in risalto i propri punti di forza, senza strafare. La qualità del prodotto è indiscutibile, nonostante qualche difetto nella resa sonora poco dinamica che un budget più alto avrebbe sicuramente evitato. Personalmente non amo molto quando i suoni della chitarra vanno in saturazione, ma questa è forse solo una questione di gusti. Si tratta comunque di dettagli perché questo non mette certamente in discussione la bontà del materiale che può competere degnamente a livello internazionale. Se il trend di crescita continua ad essere questo, scommetto che in futuro ne vedremo delle belle, spero con tante idee nuove e anche con un pizzico di audacia in più, soprattutto per quel che riguarda le parti tastieristiche che mi auguro vengano messe in maggior risalto attraverso una scelta più oculata dei registri, un ruolo che sia superiore a quello di mera tappezzeria ma soprattutto da una registrazione meno penalizzante.
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Jessica Attene
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