|
E’ notizia recente che i Discipline stiano al momento in cui scrivo lavorando ad un nuovo album in studio, a distanza di oltre 5 anni dall'ultimo “To shatter all accord” del 2011. L’idea che quei suoni che tanto ci affascinarono negli anni Novanta possano in qualche modo rivivere mi stuzzica non poco, meno convincente invece, a mio giudizio, si presenta questa terza prova solista del leader massimo Parmenter che sceglie di ricalcare abbastanza fedelmente le impronte lasciate col precedente “Horror Express” con risultati però meno convincenti e vi spiegherò perché. “Sheherazade”, il brano di apertura, svela subito e senza indugi l’anima di questo disco col pianoforte grande protagonista e la voce cupa di Parmenter che esprime malessere e tormento. E’ ancora lui a dominare la scena, suonando tutti gli strumenti, ad eccezione della batteria di cui si fa carico l’altro Discipline Paul Dzendzel. Se il titolo fa volare i miei pensieri alle pittoriche escursioni della celebre opera classica di Rimskij Korsakov, la musica qui contenuta non ha assolutamente nulla di tutto ciò allungandosi lungo dinamiche molto torpide, introspettive e depressive. Non vi è alcuna speranza di far risplendere qualche scintilla che ricordi il vecchio e amato gruppo madre ma allo stesso tempo manca anche quell’istrionismo esasperato di Parmenter, quel suo fascino noir da poeta maledetto e persino le liriche non hanno niente di speciale mancando in ispirazione e potenza. Niente da notare neanche per la successiva coda strumentale “Danse Du Ventre” che ruota attorno a un loop di piano, arricchito, si fa per dire, da un semplice e dimesso assolo di chitarra, niente che mi faccia pensare alla scabrosa danza di Salomè insomma. In “Digital” la musica acquista appena un po’ più di spessore, col piano e qualche filo di Hammond, adagiandosi però su metriche molto semplici e su scenari musicali che vogliono sicuramente essere molto Hammilliani (questo rimane il punto di riferimento più vicino) ma che presentano arrangiamenti fin troppo miseri. Vi sono poi ritornelli e ripetizioni e tutto ciò che ci conduce, senza toglierci il fiato, verso la classica forma della canzone. Voglio però a questo punto volare al centro dell’album, verso quello che secondo me rimane il pezzo più riuscito in assoluto e mi riferisco a “All for Nothing”: piano ed archi ci regalano questa volta suggestioni gotiche ed il canto recupera tutta la sua pletorica teatralità ricordandoci quanto questo artista riesca ad essere comunicativo e pungente con una performance che esprime turbamento e profonda ansia e direi che Parmenter mi convince di più come anima in pena piuttosto che come amante romantico, come invece vorrebbe apparire nella ballad “I am a Shadow”. Del tutto fuori luogo invece appare il clima spensierato e vacanziero di “Stuff in the Bag” e da dimenticare la sgraziata performance di “Consumption” in cui il modello vocale più prossimo sembra invece quello di Dylan. L’altro pezzo da ricordare, secondo me, è “All our Yesterdays”, impregnata di sentimenti di solitudine e tragicità e abbastanza ricca sul piano strumentale. “Hey for the Dance”, decimo e ultimo pezzo dell’opera, sembra una canzone che l’artista canta a sé stesso e forse anche per questo il senso di desolazione che emana ne risulta oltremodo amplificato. Termina con una specie di inno, chiudendo una triste storia d’amore descritta da versi banali, con un finale blues a sorpresa che rappresenta l’ennesima trovata di dubbio gusto di questo disco. Non metto in dubbio la grandezza di Parmenter, avevo gradito il precedente album solista nonostante le perplessità di altri critici ma questa volta la speranza è che il ritorno dei Discipline porti nuovo entusiasmo a me e anche al loro leader che spero di rivedere presto protagonista di nuove e splendide avventure musicali, all’altezza del suo immenso talento.
|