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SETI Bold travels Mylodon Records 2016 CHI

Il nuovo capitolo in studio del progetto di Claudio Momberg (tastierista, ma con una mano anche su basso e chitarre), che si interseca con altri gruppi della scena Prog cilena (anche se di alcuni di loro non si hanno più notizie da tempo), conferma la presenza come ospite di Damian Wilson, già della partita nel precedente “Discoveries”, che ormai data a 7 anni addietro, allargando la cerchia degli ospiti illustri ai nomi di Steve Rothery e Clive Nolan. Il sempre potente cantato di Damian si unisce ed alterna a quelli di Jaime Scalpello e Paula Vilches, a donare una ricchezza vocale che non viene peraltro doverosamente sfruttata, a mio parere, alternando semplicemente i ruoli di lead vocalist nel corso dei 9 brani dell’album, con alcuni brani strumentali; oltre tutto i due cileni non sono in possesso di ugole particolarmente dotate.
Musicalmente il progetto continua ad onorare il proprio nome (SETI, ricordo, è nome del programma di ricerca delle intelligenze extraterrestri) con una musica che coniuga il Prog sinfonico tradizionale con atmosfere spaziali spesso dilatate, dall’incedere poco dinamico e piuttosto lineare. Va da sé che lo scarso dinamismo delle canzoni pare senz’altro essere frutto di una scelta compositiva, non certo di una mancanza di vigore nella realizzazione. Le sonorità a tratti sono anche piuttosto potenti, con la chitarra elettrica che sale di tono, talvolta andando in distorsione e sfiorando addirittura il Prog metal.
E’ il caso, ad esempio, della coppiola di canzoni costituita da “Divine Decision” e “The Third Gate”, entrambe cantate da Wilson, che, dopo un avvio abbastanza trattenuto, comincia lentamente a salire di tono per trovare, nella seconda delle due, sonorità metalliche in cui il vocalist inglese si trova maggiormente a proprio agio, anche se la lentezza dei brani gli impone sempre un cantato ad esplosione controllata.
Il brano più lungo dell’album invece, costituito dai quasi 10 minuti di “Evolution”, altro non è che un excursus virante all’elettronica, con sonorità eteree e cosmiche che descrivono ampi scenari e che sfociano, senza soluzione di continuità, nella (finalmente) movimentata, ed altrettanto strumentale, “The Great Conflict”, caratterizzata da un solo di chitarra, che posso immaginare da quale dita provenga, e che a sua volta si lega con la conclusiva e melodica (e un po’ floydiana) “Anguish”.
“Bold Travels”, così come i lavori precedenti del gruppo, è un buon album, in fin dei conti, anche se sembra sempre non voler (o poter) fare il passo ulteriore per guadagnarsi livelli di gradimento maggiori. I brani più rock sembrano viaggiare costantemente col freno a mano tirato ed il disco sembra poi perdersi nel buco nero della citata “Evolution”, da cui riesce a riemergere a fatica.



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Alberto Nucci

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