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THEO The game of Ouroboros Big O Records 2015 USA

Jim Alfredson è considerato da molti uno dei migliori specialisti dell’organo Hammond al giorno d’oggi. Conosciuto soprattutto in ambito jazz con il suo trio denominato “organissimo”, ma impegnato anche in progetti blues e in una costante attività live, a dimostrare il suo eclettismo questo musicista ha dato vita anche al gruppo prog Theo, che esordisce all’inizio del 2015 con l’album “The game of Ouroboros”. Si tratta di un lavoro che ha avuto una lunga gestazione, di circa tre anni, dovuta proprio all’intensa operosità di Alfredson, che ha accumulato in questo periodo una buona mole di idee, condivise poi con i colleghi Gary Davenport (basso), Kevin De Pree (batteria) e Jake Reichbart (chitarra). In quasi un’ora di musica siamo assaliti da un rock sinfonico a volte potente e a volte più raffinato, che magari non mette in luce grande originalità, basandosi su strutture ben conosciute e consolidate, ma che pure presenta una verve ed una brillantezza che rende la musica accattivante fin dal primo impatto. Le tastiere ovviamente sono al centro della scena, tra lampi classicheggianti e sonorità più ruvide e non si punta solo sull’Hammond, visto che viene utilizzata un’ampia gamma timbrica, puntando sia su una strumentazione analogica, che su sintetizzatori più moderni (spicca, inoltre, durante il brano “The blood that floats my throne”, un meraviglioso intervento all’organo a canne). Il sound sviluppato dai Theo, tuttavia, non è unidirezionale, visto che risulta importantissimo il contributo degli altri musicisti: Reichbart si ritaglia interessanti spazi con la sua sei corde, sia con solos ispirati, sia attraverso infiammati duelli con Alfredson, mentre il motore ritmico li segue a meraviglia senza perdere un colpo. Non si perde di vista la melodia, grazie alle intriganti linee vocali (delle cui parti si fa carico lo stesso Alfredson) e attraverso lo sviluppo dei vari temi musicali. Così, tra passaggi più intimisti ed altri più potenti e vicini al new-prog, l’album si dimostra molto omogeneo, si ascolta e scorre via che è un piacere, anche se mancano veri e propri colpi di genio che possano mettere i brividi e far gridare al miracolo. Tra le composizioni più riuscite, oltre alla già citata “The blood that floats my throne”, segnaliamo “These are the simple days”, che parte in maniera intimista con piano e voce e che poi si sviluppa con un crescendo emozionante tra melodie d’alta scuola e fughe strumentali trascinanti, con i consueti cambi di tempo e di atmosfera, e le brillanti architetture dei tredici minuti e mezzo di “Idle worship”. Nulla di nuovo all’orizzonte, con i soliti riferimenti ai classici Yes, Genesis e Pink Floyd, ma la classe, la professionalità e l’impeccabilità tecnica con cui è trattato il tutto ci spingono ad un giudizio sicuramente favorevole verso il debutto dei Theo, che ha tutte le carte in regola per attirare una larga cerchia di seguaci del progressive rock.


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Peppe Di Spirito

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