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Opera rock o concept album? Questo monumentale doppio lavoro di Erik Norlander, prolifico keyboard wizard che può vantare attestati di stima da parte dei suoi numi tutelari Emerson e Wakeman, probabilmente si colloca nel mezzo, essendo interpretato da un cast di ben tredici tra musicisti e vocalist ma non prevedendo ruoli fissi assegnati alle varie voci, né tantomeno un narratore o un’orchestra.
Le liriche dell’album raccontano l’ascesa e l’inevitabile caduta di Johnny America, un idolo musicale artefatto, creato mediante manipolazioni genetiche che ne assicurassero un successo planetario ed una fine prematura programmata che potesse assicurare la perpetuazione del mito attraverso ristampe, rimasterizzazioni ed operazioni commerciali. Un’amara estremizzazione di quanto succede nella realtà nel mondo discografico e dello spettacolo in generale - con i suoi protagonisti glorificati ed affossati ad arte - trasposta in un contesto fantascientifico: un plot non originalissimo ma apprezzabile.
Dal punto di vista musicale la proposta si colloca tra un pomp-rock di stampo americano infarcito di virtuosismi (non solo tastieristici) ed un prog-metal a volte un po’ carente in termini di fantasia. Il cast utilizzato è di tutto rispetto e rivela il passato di collaboratore di lusso di Erik: tra i nomi più conosciuti possiamo citare Donald “Buck Dharma” Roeser, voce e chitarra dei Blue Öyster Cult, nonché i celebrati batteristi Virgil Donati, Gregg Bissonette e Vinnie Appice.
Il tocco di tali navigati professionisti si sente chiaramente per tutta la durata del disco ed assieme all’indiscutibile classe di Erik aggiunge un punto o due ad un album che invece dal punto di vista compositivo non eccelle, se si eccettuano alcuni picchi creativi come la conclusiva, stupenda e floydiana “Sky full of stars”, il metal epico condito da organo a canne di “The fall of the idol” o il rock-blues di “Lost highway” finalmente con un caldo suono di Hammond a sostituire gli onnipresenti synth. Ecco, forse un appunto da muovere riguarda proprio gli arrangiamenti, che malgrado la ricchezza dell’armamentario tastieristico di Erik, tendono a privilegiare i suoni sintetici a quelli più organici, anche se per nostra fortuna sono le frizzanti timbriche del Moog modulare (un esemplare del 1967!) a prevalere sulla piatta freddezza digitale.
Rendiamo invece merito a Norlander per aver saputo resistere a tentazioni fagocitanti e di aver al contrario lasciato spazio adeguato alle chitarre (Neil Citron e Peer Verschuren gli altri addetti alle sei corde) pur ritagliandosi corposi spazi per le sue vertiginose fughe di synth.
In generale, il secondo CD (“Fall”) può risultare meno immediato ma più soddisfacente del primo (“Rise”), in cui alcuni brani risentono un po’ troppo degli accenti pomp/AOR, proponendo ritornelli scontati e sing-along da stadio come in “Heavy metal symphony” e “Music Machine”, ma tutto sommato abbiamo una certa uniformità di atmosfere, rafforzata anche dalla frequente ripresa di alcuni temi, come comanda la tradizione dei concept.
Consigliato agli ammiratori di Ayreon (indubbie le affinità artistiche con Arjen Lucaseen) e a chi rimpiange la grandeur degli storici, epici album solisti di Rick Wakeman e non ne disdegna la contaminazione con una più moderna attitudine verso sonorità prog-metal.
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