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YUGEN Labirinto d'acqua Altrock 2006 ITA

Il labirinto è una struttura architettonica complessa in cui è difficile orientarsi, fatta in maniera tale per cui trovare l'uscita diventa una vera e propria sfida. L'acqua è, fra i quattro elementi della materia, quello più versatile e multiforme, in grado di mutare la sua foggia in base al contenitore che lo accoglie, può essere placida come quella di un acquitrino o burrascosa, come quella che cade a precipizio da una cascata. Tutta questa dissertazione sul titolo dell'album degli Yugen vuole essere un tentativo di comprendere un album di difficile analisi, mutevole come l'acqua, intricato come un labirinto ma maledettamente affascinante, maledettamente inafferrabile e maledettamente bello! Vorrei innanzitutto dichiarare che quest'opera è un grosso motivo d'orgoglio per il nostro Prog nazionale, in grado di competere con i grandi di ogni dove che spicca per la grande perizia tecnica, per la brillantezza delle idee e per la cura nella realizzazione sonora. Sto forse esagerando? Ma lasciatemi pure perdere nel mio delirio, perché non è facile trovare dischi così e l'entusiasmo può diventare davvero incontenibile al pensiero che questo progetto nasce proprio nel nostro paese. La mente che ha partorito la musica contenuta in questo CD è di un musicista già noto nel panorama prog e cioè Francesco Zago, già chitarrista dei Night Watch, che ha arruolato musicisti d'eccezione per dare forma alle sue composizioni che questa volta sono assai lontane dal lineare e rassicurante prog sinfonico del gruppo di origine.
Diciamo che la proposta musicale di questo foltissimo gruppo (ben tredici sono i musicisti che hanno preso parte al progetto) è ad un primo approccio abbastanza ostica, ma nonostante la complessità architettonica è quasi impossibile non rimanerne affascinati ed incuriositi. Prima di tutto colpisce il grandioso assetto strumentale, con assortimenti quanto mai particolari: un bellissimo dispiegamento di tastiere comprensivo di MiniMoog, Mellotron, Piano elettrico ed organo, domate da Paolo Botta (che ricorderete senza dubbio per la sua collaborazione con i French TV), una nutrita sezione di ottoni con sax e clarinetti di tutte le fogge, passando poi al flauto, al violino, fino ad arrivare agli idiofoni (marimba, vibrafono e glockenspiel di Massimo Mazza), al liuto e al mandolino (di Tommaso Leddi degli Stormy Six) e ancora al clavicembalo e al Theremin (di Giuseppe A. Olivini che suona anche lo shakuachi, il flauto dolce giapponese). Per non scordare comunque la presenza di Stephan Brunner al basso e Markus Stauss al sax, entrambi dell'ensemble svizzero Spaltklang. E' come se un'orchestra da musica da camera si fosse fusa con un gruppo jazz, decidendo di fare una jam all'insegna dell'avanguardia, in cui l'unica regola sta nella creatività senza confini. Abbiamo quindi una specie di espressionismo sonoro in cui l'io creativo dei musicisti viene proiettato al di fuori del campo dell'inconscio e trasformato in musica. Prima ancora di arrivare alla musica però hanno colpito molto la mia immaginazione la strana simmetria utilizzata nella disposizione dei pezzi, in cui brani di breve durata si alternano a pezzi di minutaggio maggiore, con un picco di nove minuti di "Quando la morte mi colse nel sonno", collocato più o meno in posizione centrale, e poi le stravaganti citazioni poetiche associate a ciascun pezzo, riportate con cura nel booklet. Già da questi particolari esteriori possiamo quasi immaginare il labirinto d'acqua in cui stiamo per tuffarci.
In apertura è stato collocato forse uno dei momenti più sinfonici dell'album: preceduto dai cinquanta secondi puramente pianistici alla Debussy di "Sévere réprimande" (ai tasti Fabrizio Fasoli), "Catacresi5" appare così invitante che per noi è impossibile non addentrarci nell'oscuro labirinto. La composizione è di stampo cameristico, fatta di intrecci aggrovigliati e vibratili, squarciati da momenti di elegiaca alienazione e dotata di una complessità affascinante in cui non è difficile recuperare un certo filo conduttore melodico. Le tonalità fredde degli archi si oppongono ai toni caldi degli ottoni procedendo su ritmiche spezzettate fino a veleggiare e dissolversi in un finale etereo e surrealistico. Ma l'ascolto si fa sempre più complesso e dopo aver assaggiato una "omelette norvegese" dal sapore insidioso, i ritmi si fanno più stressati e tormentati e la musica sempre più astratta ed inafferrabile. Siamo nel bel mezzo di "Corale metallurgico" e tra quelli che sembrano grugniti, starnazzamenti vari e persino le urla strazianti del Theremin, si alternano sensazioni stranamente piacevoli, come quelle della marimba, a sfuriate strumentali alla Samla Mammas Manna. Quando poi ci sentiamo del tutto persi, all'improvviso compare una linea melodica che ci illude di farci ritrovare la strada; ci illude, appunto perché sul più bello si ricomincia a girovagare a tentoni. L'aspetto che senza dubbio colpisce è l'interazione complessa degli strumenti che vengono impiegati in maniera massiva in ciascun quadretto sonoro, come a voler sfruttare al massimo tutte le loro potenzialità, il tutto senza inibizioni e limitazioni.
Geniale e di una comicità grottesca la specie di fanfara scheletrica, fatta con un clavicembalo che sembra quasi scordato e con ottoni smunti e flebili, di "Danse cuirassée (periode greque)". Così pure l'apertura di "Brachilogia7" che sembra quasi un Mellotron dalla voce rauca che sbadiglia e borbotta. Il pezzo centrale, quello più lungo, "Quando la morte mi colse nel sonno", è stranamente quello più ascoltabile e che produce sentimenti di ascolto meno contrastanti e più definiti. Sull'onda di un motivo trascinante che ispira mistero si apre all'improvviso un vuoto in cui soffia soltanto lo shakuachi ed il vento fa tintinnare qualche oggetto di metallo, sembra quasi di essere entrati in una città morta ed abbandonata, tempestata da spettri che non tardano a farsi sentire. Si tratta di un pezzo suggestivo ed emotivo, quasi rappresentasse la trasfigurazione in musica di un quadro di Munch, in cui la realtà appare deformata dalle angosce del nostro io più profondo. "Le rovine circolari" sembrano dapprincipio qualcosa uscito da "Nucleus" degli Anekdoten, con le loro sferzate Crimsoniane, quando all'improvviso qualcosa sembra rompersi e si precipita nel caos più totale, il violino produce suoni strazianti e spettrali e attorno è come se tutto crollasse in rovina. L'album riesce a tenere l'ascoltatore in continua tensione e sempre sulla lama del rasoio, di sorpresa in sorpresa, fino ai conclusivi "Incubi concentrici" che ci regalano, con le loro seducenti spirali di ossessioni sonore, momenti di grande pathos, simili alla colonna sonora di un film surrealistico.
E' RIO, è avanguardia, è musica da camera, è fusion è italiano è un capolavoro, forse non si era capito? Meglio scriverlo nero su bianco allora!

 

Jessica Attene

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