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Dopo una carriera più o meno regolarmente scandita dalla pubblicazione di nuove produzioni discografiche, la band canadese ci aveva fatto perdere le sue tracce. L'ultimo lavoro in studio, "Shadows Unbound", risale infatti al 2003. Lo stesso anno fu la volta di "All the Rage", l'album solista del tastierista e leader Guy LeBlanc, che da qualche tempo era impegnato anche con i Camel con i quali pubblicò, nel 2002, "A Nod and a Wink". Non so esattamente cosa sia successo al gruppo in questi cinque o sei anni di silenzio, fatto sta che questa nuova uscita ne sancisce il ritorno, in forma però un po' mutata rispetto al passato. La formazione, diversa da quella schierata nel precedente lavoro in studio, vede la conferma del già citato leader LeBlanc, affiancato da due ex della band, e cioè dal bassista Guy Dagenais (che aveva suonato nella terza parte della saga di "Heretik") e dal batterista Alain Bergeron, più il chitarrista Tristan Vaillancourt ed una serie di ospiti, fra cui troviamo un cantante solista: France Morin. Ed è proprio quest'ultima la novità più rilevante: dopo una serie di ben 6 album prevalentemente strumentali il gruppo assolda un cantante, anche se non "di ruolo", per dare voce a profuse parti vocali che narrano un concept ispirato niente meno che all'esodo degli ebrei dall'Egitto di biblica ispirazione. Proprio questo cambiamento da gruppo prevalentemente strumentale a gruppo "vocale" rappresenta uno degli aspetti che mi sento maggiormente di criticare: innanzitutto la voce robusta e rabbiosa di France Morin, con la sua attitudine quasi metal, non si adatta alla perfezione al vecchio stile della band. Per dirla tutta, poi, proprio le parti vocali presentano arrangiamenti più fiacchi: in queste occasioni le parti strumentali si assopiscono ed appiattiscono per fare da base al cantante ed il salto fra queste sequenze e le brillanti parti strumentali accresce ancora di più le perplessità. Ho apprezzato i vecchi Nathan Mahl ma il mio non è un atteggiamento di chiusura verso la voglia di novità della band ma una triste presa di coscienza che il lavoro attuale, così assemblato nella sua globalità, è mal riuscito e poco equilibrato. Le parti strumentali ci ripropongono quei brillanti voli tastieristici e quegli impasti prog fusion che tanto ci avevano fatto apprezzare questa band, con belle sequenze di violino e deliziosi incroci fra tastiere e chitarra; è questo il caso di "The Plagues" un pezzo molto energico e coinvolgente, con riferimenti a Yes, Kansas e Dixie Dregs, con tanto di virata folk finale davvero divertente. Molto bella è anche la seconda parte della traccia di apertura, "Burning Bush", scandita da riff accattivanti e da belle sequenze chitarristiche. Purtroppo in diverse occasioni i suoni si sono schematizzati ed anche irrobustiti e spesso sembra quasi di ascoltare dello scadente prog metal con richiami a Spock's Beard, Transatlantic e Dream Theater. Non che gli ultimi tre riferimenti siano in assoluto da buttare via, piuttosto è il modo in cui vengono inglobate certe influenze a destare perplessità: è questo il caso ad esempio di "Let My People Go", la seconda traccia, in cui i suoni si induriscono e la musica sembra quasi rincorrere la voce ringhiosa di France Morin e la band tenta persino di indovinare un ritornello che però non riesce mai a rappresentare il fulcro della canzone. Ad essere più precisi le parti vocali di quest'album mi ricordano forse di più certe cose del classico metal degli anni Ottanta, con parti strumentali abbastanza tarate su questo stile canoro inframmezzate a improvvise preziose fioriture strumentali che, invece di valorizzare il disco, aumentano il senso di insoddisfazione generale, facendo accrescere il rimpianto per un album che avrebbe potuto essere, se non il migliore della discografia dei Nathal Mahl, il sigillo del loro grande ed atteso ritorno.
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